Due articoli tratti da "Giallorossi" anno XIII - N°118 - Dicembre '82

(un sincero Grazie a A. Gianluca che me li ha inviati)



Storia di un viaggio di 40 ore da Roma a Colonia e viceversa
Allucinante ma non troppo
di Bruno Bartolozzi (all’epoca giornalista di Radio Bl

“Viaggio allucinante” è un noto libro di Isaac Asimov, ma potrebbe essere il titolo del prologo e dell’epilogo di questa trasferta renana, che ha visto protagonisti centinaia di tifosi giallorossi nell’impegnativa pratica di strappare ai dondolii del vagone cinque minuti di sonno. Ma che tirasse brutta aria da questo punto di vista lo si era notato se non altro dal dispettoso zelo con cui ogni mezz’ora baffuti e pignoli controllori si affacciavano, vomitando sui malcapitati oceani di luce. L’unica rivalsa consisteva nel rispondere alle inespressive fisionomie dei ferrovieri indigeni frasi che la più lasciva etica da carrettiere disapproverebbe con ripugnanza, mentre, il “tanto non capisce” più che uno slogan diventava un ideale…in attesa di dolorose smentite.
Strano ambiente la stazione di Colonia, dove gli addetti parlano solo il tedesco, le ragazze ed i giovani di passaggio solo l’inglese ed i venditori di birra e sandwich solo l’italiano e, manco a dirlo, non c’è sala d’aspetto in un posto dove voglia d’aspettare non l’ha proprio nessuno.
Fuori, per la nostra meraviglia troviamo gente disposta a far passare dinanzi ai semafori rossi sciocchi giri di secondi, mentre la prima pizzeria italiana è presa d’assalto e trasformata in un impagabile ufficio informazioni. Girando a piedi per Colonia di scritte sui muri o simili non se ne trovano, escluso uno slogan pacifista piazzato con bella mano su di un nascosto contrafforte del lungotevere locale, che incanala il corso del Reno: ma date tempo al tempo, ed ecco già le lucidissime panchine controllate dall’oscura mole dell’incombente cattedrale se ne irridono del cerbero e si adornano di piccoli ma aggraziati “FORZA ROMA”.
E si avvicina l’ora della partita, panini e scatolette, effimeri ricordi di qualche ora prima, sono soppiantati da würstel e birra bollente che mischiati a senape e pane piccante danno luogo ad un miscuglio detonante (provare per credere); vittime, i soliti stomaci e gli anonimi passanti involontari testimoni di così poco decoro.
Il Mungersdorfer Stadion è lontano, e intenso è pure il traffico che, però di fa sentire a casa, tra Piazza Fiume e Via Tiburtina.
Invece siamo lungo Aachenestrasse e non sul 490 (uno degli autobus che ci portava allo stadio n.d.G.) ma sul pullman della stampa, bizzarramente trasformatosi in un ritaglio di Little Italy con orchestrina e malinconiche canzoni.
Controlli severissimi all’entrata e qualche risolino di scherno, sbuchiamo in campo ed è il terrore: due piani di gente urlante e l’assordante rimbombare tipico degli stadi coperti. Ci sentiamo in prima linea e, nei tavolini della tribuna stampa, quasi in trincea. Non c’è da crederlo, ma proprio dopo una giornata trascorsa a prendere a calci ogni facile retorica pensiamo, forse con orgoglio, ai tanti punti giallorossi, e tricolori che si agitano dappertutto, a quei personaggi venuti a Colonia dal Belgio, dall’Olanda, da tutta la Germania con cui abbiamo parlato frettolosamente ed i cui tratti somatici ormai già ci sfuggono.
E inizia il gioco, presi all’agone dopo un po’ tutto passa, mentre i temuti teutonici scoprono anche loro di avere paura, e molta, del gioco italiano, arrendendosi e tremando perfino sui contrasti, sullo scontro fisico. A pensarci bene è stato bello vedere stroncati e mugolanti coloro che ci avevano sempre beffeggiato dal punto di vista atletico; al termine l’amaro per l’occasione mancata è lenito dalla soddisfazione di aver visto in continuazione rotolare ed inscenare apocalittici drammi quei giocatori che si ritenevano panzer.
Fischio finale, ma non c’è modo di riflettere: veloce ed affannosa corsa tra bus e metropolitana per agguantare il treno delle 11:00 e arriviamo con ampio anticipo, assieme ai soliti personaggi del viaggio d’andata: c’è anche il tempo di conoscere tifose locali e scambiare con loro solo un paio di sciarpe.


La marcia su Colonia
di Adriano Verdolini

Colonia, una città somigliante ad una bomboniera dischiusa sulla cerniera costituita dal Reno, ha un aspetto quasi asettico: per la pulizia delle strade; per le sue finestre civettuole sulle lucide facciate delle case ricostruite, dopo la distruzione bellica, sul modello originario; per il silenzio che le avvolge, o, forse, per una inesplicabile forza suggestiva che richiama il fresco odore del celebre profumo che da lei prese il nome.
Quasi compiacendosi di questa situazione di privilegio, la città non offre che raramente momenti di vera eccitazione, sicchè tutto sembra procedere nella tranquillità più assoluta.
Dal 48 d. C. alllorchè divenne importante stazione romana col nome di Colonai Agrippinesium, in omaggio all’ambiziosa Agrippina, moglie di Claudio e madre di Nerone, la città di Colonia non aveva più avvertito una imponente presenza di romanità sul suo suolo, come in occasione dell’incontro di calcio con la Roma.
A distanza di quasi due millenni, nuove legioni, non più guidate da Giulio Cesare, Druso e Tiberio, ma solo dalla immarcescibile fede per la squadra del cuore, sono salite fin lassù a riproporre, sia pure per un giorno, il magico nome di Roma – stavolta in funzione calcistica – alle incantate genti del Reno.
Alle aste acuminate che “triari” e “hastati” recavano allora come armi offensive, adesso le rinnovate schiere romane – anzi romaniste – avevano sostituito altre, incruente, di polivinile, atte a reggere le bandiere dai colori dell’Urbe. Né sui loro capi erano posti elmi di cuoio o di lucente metallo, ma assai meno imponenti zucchetti di lana o, al massimo, berretti a visiera con lupetto di matrice “anzaloniana” , figlio spurio della leggendaria lupa, simbolo feroce della forza di Roma che proprio i Germani sperimentarono a loro spese.
Al cospetto di queste truppe vocianti, la sonnacchiosa Colonia ha spalancato gli occhi e si è aperta ad accogliere con piacere l’inconsueta nota di colore, vivificando la sue strade con un tono di allegria dimostratasi quasi subito contagiosa.
Come per un improvviso raptus idilliaco, tra ospitanti e ospiti si è realizzata una istantanea cordialità di rapporti che, mentre Klaus e nando si scambiavano le sciarpe delle rispettive squadre, sottolineando la loro improvvisa amicizia di fronte a due boccali enormi di birra chiara, Peppino e Thomas si lasciavano fotografare.
In un ambiente cos’ favorevole, l’orgoglio del “civis romanus”, portato per sua natura ad ostentare superiorità e a minimizzare la forza dell’avversario con il quale è impegnato in un duello feroce, si placava del tutto consentendo un confronto impostato su un piano di esemplare cavalleria da cui emergeva una immagine nuova, sicuramente più bella, del tifoso romanista.
Questa nuova fisionomia è certamente derivata dalla coscienza di sentirsi forti, perché forte è la squadra e altrettanto forte è la società; il tifoso segue come ombra l’andamento della sua squadra e quando si avvede che quest’ombra si proietta sempre più lunga, ha la consapevolezza di trovarsi in una dimensione più elevata che lo rende protagonista.
E proprio a Colonia, durante la gara allo stadio, ad una Roma protagonista, sia pure sfortunata, in campo, ha fatto eco un pubblico giallorosso vero sugli spalti, degno dei complimenti che i sostenitori avversari gli hanno riservato, a fine gara per il comportamento corretto ed il tifo senza pari.
Così, d’amore e d’accordo, la spedizione romana ha vissuto una giornata indimenticabile, resa ancor più bella dalla partecipazione compatta di tutti gli italiani residenti nella città renana che, nei loro dialetti più vari, acclamavano la Roma in modo commovente.
Particolarmente toccante l’incontro con la “Sora Checca”, un’anziana signora romana di Borgo Pio, proprietaria del ristorante “Al Gufo”, al n° 8 della Schaafenstrasse. Il suo locale, per l’occasione, si è trasformato in un suggestivo tempio del tifo giallorosso, dove il rito celebrativo, costituito da squisite pietanze “alla romana”, si conclude con l’esibizione canora della “Sora Checca” che, da vecchia romanista di Testaccio, intonava a sorpresa il suo peana: “C’è Masetti ch’è primo portiere…”, subito accompagnata dal coro composito dei tifosi ormai satolli.
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