Cos’è la Roma?

Perché l’amiamo?

Per quale motivo, storicamente, siamo una tifoseria dedita in modo assoluto, viscerale, uterino alla nostra squadra?

La risposta è quella che segue e, da subito, si pone in contrapposizione con l’altra squadra “capitolina”.

Se loro si descrivono come “quelli che hanno portato il calcio a Roma”, rispondiamo che su questa circostanza ci sarebbe molto da dire a livello storico, visto che la prima partita di calcio disputata a Roma si svolse il 18 settembre 1895 al Velodromo di Via Isonzo tra la Società Udinese di Scherma e Ginnastica e la Società Rodigina di Ginnastica.

Se poi si definiscono “la prima squadra di Roma”, possiamo anche agevolmente ricordare come la Società Ginnastica Roma, sin dal novembre 1895, iniziò a giocare a calcio in maniera episodica nella Capitale.

Fatto sta che, qualunque sia la dicitura con la quale si descrivono, sì da rafforzare una identità che dal nome e dai colori non traspare, noi non abbiamo bisogno di definizioni, in quanto siamo la squadra di Roma e non una squadra di Roma.

La differenza sta in un articolo: determinativo il nostro, indeterminativo il loro.

Peraltro, anche geograficamente, il Rione Prati nel 1900 non esisteva ancora e, visto che a volte in qualche striscione si è scritto della romanità di Italo Foschi, lo stesso Bigiarelli aveva il papà marchigiano e la mamma pugliese.

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Beh, ne portiamo il nome, ne portiamo i colori, ne portiamo il simbolo.

Sul nome credo non ci sia discussione alcuna: Roma è la città, AS Roma è la squadra.

Sui colori neanche può sorgere controversia: giallo oro e rosso pompeiano sono i colori capitolini, derivati dall’unico giallo che si conosceva all’epoca, quello dell’oro appunto, e il rosso pompeiano o porpora che viene dal rosso dei molluschi del Mar Mediterraneo.

Sul simbolo ritengo ci siano pochi dubbi, visto che la lupa capitolina è il simbolo di Roma Capitale, concesso con decreto comunale all’AS Roma nel 1927.

Del resto, se si va a Siena, nel chiostro del Palazzo Comunale trovate la lupa, così come la trovate ad Aosta in Piazza della Repubblica, ma a anche a Verona in Piazza Erbe ed a Pisa in Piazza dei Miracoli.

Al contrario, di un’altra cosa si è certi: l’aquila laziale è il simbolo delle legioni straniere ed è araldicamente “turrita”, vale a dire ad ali spiegate.

Il simbolo della lupa capitolina, durante le guerre di conquista dell’antica Roma, veniva apposto in loco dopo che l’esercito aveva conquistato la città, anche con l’aiuto delle legioni straniere che come simbolo avevano l’aquila e che in caso di necessità arruolavano uomini tra gli agrestes e non certo tra i cittadini romani.


Per altro le legioni non avevano solamente l’aquila come loro simbolo – tra l’altro aquila “picchiatrice”, vale a dire “a volo abbassato”, con le ali all’ingiù e non quella “turrita” del simbolo laziale,  ad ali spiegate - ma vi era anche Pegaso, cavallo alato della mitologia greca che ornava il vessillo della Legio II, il toro della Legio VI, il bufalo della Legio X, il leone della Legio XIII, così come anche il cinghiale.


Del resto della statua lupa capitolina esistente al Palatino già si parla nel 295 a.C., quando i due edili Quinto Fabio Pittore e Quinto Ogulnio Gallo le aggiunsero i gemelli, mentre solo nel 103 a.C. l’aquila venne adottata dalle legioni.

Solo per finire, si fa notare come l’aquila Olimpia – di greca reminiscenza al pari dei colori rappresentati – è l’aquila calva del Nord America, che possiamo rinvenire anche sullo stemma presidenziale della Casa Bianca o sulla coat of arm statunitense, non certo l’aquila heliaca (alias aquila imperiale) che le legioni romane portavano in guerra.

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Ciò detto in ordine ai valori tradizionali fondanti e senza dimenticare che la vera stracittadina dell’epoca era tra le compagini dell’Alba e della Fortitudo, rivendichiamo ed è per noi romanisti un punto di orgoglio l’essere nati dalla fusione di Alba, Fortitudo e Roman: se una società come la Lazio è frutto della fusione delle volontà di Luigi Bigiarelli, del fratello e dei suoi amici che volevano partecipare al Giro del Castel Giubileo del 21 aprile 1900 e decisero quindi di fondare una Società Podistica, la Roma è invece nata dalla fusione della volontà di tre società calcistiche romane, non tanto per correre qua e là in qualche rassegna campestre ma con una funzione sportiva anti nordista, vale a dire per contrapporsi nel futebal alle più forti compagini che giocavano al Nord.

 

Umberto Farneti, proprietario della Bottiglieria del Gambero, vicino Via del Corso, era detto “Er guercio” ed era il factotum dell’Alba.

Il Roman, che diede i colori all’AS Roma, era un club aristocratico che giocava al proprio campo del “Due Pini”, con sede in Via Uffici del Vicario, ove poi venne fondata l’AS Roma.

La Fortitudo, poi unitasi con la Pro Roma, venne fondata nel 1908 da fratel Damaso Cerquetti, dei Fratelli di Nostra Signora della Misericordia, poi seguito da Fratel Porfirio Ciprari, sacerdote simbolo non solo del Rione Borgo ma di tutta Roma. Giocava sui campi dei “Daini”, dell’ "Olmo” e, prima della fusione, della “Madonna del Riposo”.

 

Come si può vedere, quindi, la Roma non è parte di Roma ma è Roma: racchiude alla perfezione quel Senatus Populus Que Romanus che ancora oggi leggiamo su muri e monumenti di Roma e, perché no, anche sul simbolo del Comune.

E’ l’unione di popolo (Alba), aristocrazia (Roman) e religione (Fortitudo).

Queste sono le premesse da cui partire per poter spiegare la Roma a qualcuno.

I giocatori, le partite, i successi o gli insuccessi vengono dopo.

 

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Un pizzico di storia si è quindi reso necessario per sfatare molti luoghi comuni, anche se poi, parlando di calcio, è necessario chiarire cosa ci ha fatto innamorare della Roma e anche perché i nostri padri erano della Roma e non di altre squadre.

Beh, per certo non sono state le vittorie sportive che sicuramente – seppur rare – hanno contribuito ad estendere il tifo per la squadra capitolina anche fuori dalla città di Roma.

Diremo quindi che, viste le premesse storiche, è sostanzialmente più che naturale una maggior simpatia per la Roma tra le mura cittadine: l’acquisizione del romanismo è quindi nel 99% dei casi per nascita.

Sempre per le premesse svolte, il tifoso romanista è detestato ovunque perché mantiene in sé, nel suo DNA, quel retaggio di superiorità che solo l’essere nati a Roma può dare e che in fondo un po’ tutti noi Romani inconsciamente abbiamo dentro.

Quella sensazione che quando andiamo a Londra ci fa pensare che gli acquedotti glieli abbiamo fatti noi e che chissà perché si chiama Londra e non ancora Londinium e che è ancora più strano che ci salutano con un anonimo hello piuttosto che con un ancora più sintetico “Ave”.

Viviamo tra monumenti apprezzati in tutto il mondo, reminescenza di epoche gloriose e, in fondo – quando ancora si poteva andare liberamente in trasferta – il messaggio che la preponderante (beh sì, anche un po’ arrogante) presenza romanista suggeriva al volgo locale era sostanzialmente di questo tenore: "noi siamo la Capitale e ci troviamo nella vostra misconosciuta città, qualunque essa sia, per insegnarvi le buone maniere e portare a casa una bella vittoria, non dopo non aver apprezzato la bellezza delle vostre figliole, il sapere culinario delle vostre mamme e le vostre enoteche, se ne avete una, bifolchi".

L’aneddoto che meglio condensa questo spirito lo si registra in un ormai antico Piombino/Roma di Serie B del 18 novembre 1951 – quando uno tra i tremila tifosi al seguito, non appena sceso dal treno esclamò un convinto “anvedi, c’hanno pure l’orologgi!”, affermazione goliardica che non venne recepita per tale dai tifosi locali, con conseguente immediato parapiglia.

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Se chi legge ha capito perché siamo della Roma e perché non potremmo mai rinnegarne i valori, visto che equivarrebbe a rinnegare noi stessi, non saprei dire la ragione per la quale il nostro amore è così viscerale e perché viene espresso, con forme diverse, dalle persone più varie.

Sarà che in fondo in fondo ci sentiamo più Romani che Italiani – e questo non vuol dire non sentirsi Italiani ma solo avvertire nel sangue una maggior presenza di Enea rispetto a Garibaldi –, sarà che quando la Roma gioca contro un’altra squadra per noi è anche la città di Roma che gioca contro un’altra città, sarà che il tifoso romanista – più che volere vincere, sogna di vincere… Sarà che alcuni nostri giocatori sono stati simbolo di romanità, romanismo e attaccamento alla maglia… fatto sta che la miscela di questi elementi è esplosiva e ci fa ritenere la Roma una persona di famiglia se non qualcosa di astrattamente superiore ad essa.

“La Roma è una droga, noi non ne possiamo fare a meno”, si leggeva sul finire degli anni Settanta sui muri di Roma.

In fondo è proprio così.

*

Dicevamo dei giocatori.

La mia estrazione e formazione mi porta più ad amare la maglia rispetto ai giocatori, soprattutto in questi tempi di calcio svilito dei suoi valori fondanti, anche se il concetto del “tifiamo solo la maglia” per me non è un valore assoluto in quanto – sia pur raramente – sono apparsi giocatori che sono essi stessi la maglia.

Sta a noi distinguerli, riconoscerli ed esserne inflessibili critici sotto il profilo del romanismo.

L’amore per il giocatore della Roma – al di là della simpatia estemporanea che può portare il tifoso ad infatuarsi per questo o per quello – spesso deriva dal romanismo che esso esprime, valore sempre più raro nel calcio di oggi.

Non abbiamo timore a rivendicare il nostro folle amore per Agostino Di Bartolomei.

Non abbiamo timore di farlo per il cremonese Giacomo Losi, per Francesco Rocca di San Vito Romano, per Amedeo Amadei di Frascati, per Francesco Totti e per Daniele De Rossi.

Perché Francesco Totti e Daniele De Rossi sono la Roma e NOI, non altri, siamo fortunati ad avere l’intera collezione delle figurine Panini in cui vestono solamente e consecutivamente la nostra gloriosa casacca.

*

“Quando gioca la Roma io non ascolto i Prefetti, io prendo e parto”.
Questa frase, pronunciata da un anonimo tifoso durante la stagione dello scudetto 2000/01 e che si spiega con l’inizio dei divieti frapposti ai sostenitori del calcio per seguire le proprie squadre, è stata per diverso tempo la mia preferita e la dice lunga sulla passionalità del tifoso giallorosso, pronto a mettersi contro chiunque pur di seguire la propria squadra.

Quel giorno, era un Fiorentina/Roma, si pensò di limitare l’invasione giallorossa giocando di lunedì e la risposta della Curva Sud fu “Dal 1° al 31, da Gennaio a Dicembre, da Lunedì a Domenica, dall’01.00 alle 24.00, giocatela quando volete, sempre 15.000 saremo” e quando, il lunedì successivo, la Roma giocò in quel di Firenze, apparve lo straconosciuto striscione “semo tutti parrucchieri”, che condensa in queste tre parole lo spirito romano e la passionalità giallorossa.

Già, la Curva Sud, conquistata, non esattamente in modo pacifico, l’11 marzo del 1973, in quanto in precedenza sia i tifosi più accesi della Lazio che quelli della Roma seguivano la partita da quel settore, visto che da lì uscivano i giocatori.

E’ anche e soprattutto il nostro settore per eccellenza che ha sempre mantenuto alto il fuoco dell’amore per la Roma.

Malgrado nel calcio di oggi si stia cercando in tutti i modi di renderlo un settore come un altro, perché nella massificazione generale e nel non troppo celato tentativo di decerebrare il tifoso per trasformarlo in esclusivo consumatore del prodotto calcio, la Curva Sud ancora resiste.

Ci abbiamo passato, chi più chi meno, una buona parte della nostra vita domenicale.

Lì dentro abbiamo conosciuto tutta Roma, la Roma vera.

Prendo a prestito le splendide parole scritte da un anonimo tifoso giallorosso il giorno dopo la morte di Gabriele Sandri, per descriverne la realtà: “Disoccupati sì, ma anche precari, professionisti, avvocati, ingegneri, imprenditori, impiegati, operai, autisti, panettieri, e moltissimi studenti universitari …. Poverissimi, piccoli borghesi, benestanti, qualcuno ha anche origini nobili … Chi non esce mai di casa, chi fa tanto sport, chi va in discoteca, chi non ha mai una donna e chi non sa più come tenerle a bada, chi legge i filosofi contemporanei e chi a malapena conosce la lingua italiana, belli come il sole o brutti come la fame, chi è sempre incazzato e chi ha una vena comica che fa invidia a Zelig, solitari e trascinatori, pacati e mansueti o violenti da non poterli guardare negli occhi”.

Questo era ed è la nostra curva, dove siamo cresciuti.

E quando si andava in trasferta, ma anche nelle partite in casa, questa massa informe di persone diversissime tra loro divenivano una unità sola: i tifosi della Roma.

Si potrebbe dire che tutto sommato è così in tutte le città, e forse in parte è vero.

Si può anche dire che la stessa tifoseria della Roma ha avuto momenti alti e momenti più bassi, ed anche questo è vero.

Ma la cosa che più ci inorgoglisce, come tifosi romanisti, è che noi non abbandoniamo la squadra nei momenti di difficoltà, ma la sosteniamo ancora più forte.

“La lunga crisi che ha portato al Roma in Serie B e in serie B  con la squadra il foltissimo e sempre più compatto stuolo dei suoi irriducibili sostenitori…”, così scriveva “Il Calcio Illustrato” in occasione di Roma/Milan del 1950-51, ultima partita del campionato che, per l’unica volta, portò la Roma in Serie B.

Ma potremmo ricordare decine e decine di prove di affetto, non solo nella vittoria ma soprattutto nella sconfitta, di cui diedero prova i tifosi della Roma e sarebbe persino stucchevole ricordarle in questa sede.

Per esprimerne la filosofia, quindi, non resta che il tenore di uno striscione letto una decina di anni fa nella nostra curva: “Sconfitte, delusioni, sofferenze, oltre ogni risultato ostinatamente Roma”.

Come si vede, dal 1927 o dal 1951 nulla è cambiato.

lorenzo Contucci, autunno 2012)



 


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