Studio
Eurispes sulla violenza negli stadi: per
i ragazzi il mondo è fatto a metà, amici e nemici Io,
tifoso ultrà, contro tutti Giovani,
col bomber, testa rasata, non più di destra
ROMA. Si
chiamano
«Brigate rossonere», «Mods», «Fedayn»,
«Irriducibili», «Leoni della maratona». Sono giovani,
indossano bomber (i giubbotti americani) e anfibi, hanno
spesso la testa
rasata, ma il loro cuore non batte più a destra. Sono gli
ultrà
italiani. Tantissimi, in tutto il Paese. Tifano, soffrono,
gioiscono per
la squadra del cuore. Ma picchiano,
attaccano,
feriscono e nella furia di una violenza cieca qualche volta
hanno ucciso.
E allora, sono «supporters» che sbagliano o solo teppisti da
stadio? E' il gioco del calcio che scatena la violenza o la
responsabilità
va allargata alla società? Sono queste le domande a cui ha
cercato
di rispondere l'Eurispes, con una ricerca su centinaia di
gruppi di tifosi
presenti in Italia, definendone le particolarità e il «filo»
che li unisce agli altri ultrà europei. Secondo lo studio
dell'Eurispes,
in Italia sta emergendo un fenomeno del tutto nuovo. Il tifoso
non subisce
più il fascino delle organizzazioni di destra e dei naziskin
ed
è andato emancipandosi rispetto al modello oltre Manica degli
hooligans.
Sullo sfondo di questi gruppi di ultrà c'è invece una
situazione
di malessere generale, di ansia, di incertezza e soprattutto
la condizione
subalterna che i giovani vivono nella società. L'atteggiamento
degli
ultrà è semplice, quasi manicheo: esistiamo «noi»
e gli «altri», gli «amici» e i «nemici».
Di qui il bisogno di «marcare» il proprio territorio, di
cercare
disperatamente un modo per sentirsi «socialmente visibili»,
che il più delle volte sfocia nella violenza negli stadi. La
«tribù»
degli ultrà italiani quindi, essendo storicamente
interclassista,
trova il proprio collante in un approccio di tipo «militante»,
«aggressivo» e «combattente». Il movimento degli
ultrà in questo modo riesce a «catturare» l'attenzione
dei mass-media come nessun altra manifestazione turbolenta
giovanile estranea
alla sfera politica riesce a fare. Nel corso del campionato
'93-'94 sono
state arrestate 121 persone, altre 442 sono state denunciate a
piede libero. Sul «campo»
sono rimasti 672 feriti (350 poliziotti, 67 carabinieri, 246
civili e 7
vigili urbani). E' stato
interdetto
l'accesso agli stadi a 910 tifosi, la metà rispetto al '90. Le
partite
giudicate più «a rischio» sono quelle che disputate
da squadre come la Roma, la Fiorentina, l'Inter, il Milan e il
Verona.
Il maggior numero di incidenti negli ultimi vent'anni infatti
è
stato registrato durante le partite della Roma (101), della
Juventus (70),
della Fiorentina e del Milan (69) e del Verona (59). Lo schema
«amico-nemico»,
che è un elemento di base della «cultura del tifoso»,
non è un fenomeno che si rintraccia solo nelle squadre delle
grandi
città. L'odio per i «team» rivali scorre anche nelle
tifoserie «provinciali»: il Gorizia non può letteralmente
vedere la Triestina, ma va d'accordo con il Sassuolo, il
Mantova è
in buoni rapporti con il Brescia e la Lucchese, ma è nemico
giurato
del Trento. Cosa fare allora per impedire il ripetersi degli
«week-end
di violenza»? La ricerca dell'istituto indica delle soluzioni.
«Ritengo
impossibile eliminare del tutto questo tipo di violenza
-sottolinea Valerio
Marchi, uno dei curatori dello studio - ma si può senz'altro
attenuarla
coinvolgendo in modo più diretto i suoi stessi sostenitori».
L'idea è di richiedere l'intervento diretto delle Società
sportive, uniche in grado di fornire un controllo a tutti i
livelli del
mondo calcistico. Le forze dell'ordine da sole infatti, non
solo non possono
presidiare tutte le partite della domenica, ma spesso, facendo
irruzione,
violano il carattere «sacrale» della curva, scatenando la
vendetta
di gruppo. ALESSIA MATTIOLI L’Unione Sarda (29/10/94)