INTERVISTA
DI FRANCO DOMINICI A GAETANO ANZALONE
Gaetano
Anzalone adesso è lontano, lontanissimo dalla Roma:
non è
più andato allo stadio, non ha più visto una maglia
giallorossa.
«E'
la Roma - dice con un'amarezza velata, leggera e un
po' aristocratica -
che si è allontanata da me: nessuno mi ha più cercato,
chiamato;
come se io, otto anni presidente, non fossi mai
esistito».
Lo
hanno dimenticato dirigenti arroganti, gelosi, ingordi
di pubblicità,
ma non lo hanno certo dimenticato i romanisti: per
scambiare quattro chiacchiere,
è stato necessario rintanarsi, sfuggire ai tanti che
lo fermano.
Lo
salutano, gli esprimono simpatia. Anzalone è stato,
dice l'aneddotica,
il presidente buono, sempre commosso, alle prese con
un impegno troppo
grande per lui.
«Sono
stato un buon amministratore, ho lasciato una Roma
giovane, sana nel bilancio,
senza problemi.
Se
vi sembra poco, scusate. Però non ho vinto, e per
questo me ne sono
andato». Scorre, nel suo racconto, un filo di verità
gonfio,
caldo, emozionante.
«Io
ho preso la Roma da Marchini per 1 miliardo e 480
milioni, l’ho ceduta
a Viola per 1 miliardo e 600 milioni: con in più
Trigoria e un vivaio
giovanile forse unico in Italia; e con in mezzo otto
anni di svalutazione
galoppante: mi sembra di essere stato avveduto e
onesto, non ho tentato
speculazioni».
Come
è buffa, talvolta, la storia. Anzalone non ha vinto ma
il presidente
che ha vinto è stato uno solo, Dino Viola, ed ha vinto
proprio lavorando
sulla solida base della Roma che gli è stata quasi
regalata.
Per
vincere, Anzalone ingaggiò Scopignó, Herrera,
Liedholm, e
di meglio in giro non c'era; portò alla Roma gente
come Bruno Conti,
Roberto Pruzzo, Pierino Prati.
Che
mistero c'era dunque, dietro quella Roma
apparentemente forte ma impotente?
Con
quello che Anzalone dice, sussurra, fa capire tra
mille ritegni, ci sarebbe
da riscrivere la storia del calcio italiano.
C’era
un groviglio di situazioni ambigue, di ritorsioni
arbitrali, di inimicizie
federali, di antipatie e di ripicche.
«Sapete
quale è stata la cosa più importante che io ho fatto
per
la Roma?
Un
viaggio penitenziale, la testa cosparsa di cenere ma
la dignità
stampata in viso, verso Firenze, da Artemio Franchi
presidente federale.
Gli chiesi scusa e ancora oggi non so perché. Scusa di
che? di quello
che combinò Michelotti ai danni della Roma nella
famosa partita
con l'Inter?
Mi spiegai,
chiesi amicizia, e la stessa cosa feci con tutti i
potenti del calcio italiano:
le cose cominciarono a cambiare e io mi rifiutavo di
crederci.
Questa
fu la mia più grande opera in favore della Roma e fu
un'impresa
ciclopica: restituirle il rispetto di tutti».
Farla
uscire dagli inferi, dal mondo dei condannati, ma non
bastò per
vincere. «Non bastò, e solo allora mi sentii sconfitto
e me
ne andai».
In
questo quadro, azzardiamo, è vera anche la storia
dell'epurazione
dopo una strana sconfitta che decise le sorti del
campionato ? «Certo
che è vera, io non avevo elementi precisi di giudizio,
di colpevolezza,
altrimenti avrei scatenato il finimondo. Ero nel
dubbio, e nel dubbio tacqui
ma cacciai via tutti».
Perché
un personaggio così sensibile e rigoroso andò a
cacciarsi
in un'avventura tanto complicata come la presidenza
della Roma?
«Perché
mi piaceva tanto».
E
si è divertito?
«Assolutamente
no».
Ci
ha rimesso soldi?
«Tanti,
tantissimi».
Si
è rovinato, come Marini Dettina?
«No,
perché io sono un amministratore severo; il bilancio
della Roma
restò sempre in attivo e con giocatori valutati
pochissimo: che
so, Tancredi 40 milioni, e valeva dieci volte di più.
Il mio bilancio
personale invece andò in rosso profondo, ma quando mi
resi conto
che ai sacrifici finanziari non corrispondevano i
risultati,
passai
la mano. Solo Marini Dettina si è davvero rovinato per
la Roma,
quello che gli hanno fatto è inenarrabile».
Tra
un saluto e l'altro dei romanisti antichi; Anzalone
sospira, come se il
ricordo gli pesasse. «Ero stanco, non avevo più mezzi
finanziari,
ero deluso». Adesso soffre solo un distacco ingrato
(«Non mi
hanno invitato neppure alla festa d'addio di Bruno
Conti»), ma lo
soffre in modo lieve, generoso, perché capace di
perdonare. «Viola
mi disse: dobbiamo assicurare la continuità, e infatti
non si fece
più sentire, anche se praticamente gli avevo regalato
la Roma. “In
realtà Dino Viola non mi amava”.
E
Anzalone amava Viola? Sorride: «Mica tanto». «E
pensare
che se avessi venduto Pruzzo alla Juventus avrei
potuto regalare la Roma
ai tifosi. La
Juventus
; mi offriva, per Pruzzo, più di quanto Viola poi mi
ha dato per
prendere la società».
E
perché non cedette Pruzzo?
«Perché
ero un ingenuo, questo è stato il mio più grande
difetto,
e nell'ingenuità temevo di danneggiare la
squadra».
Anzalone
ingaggiò Scopigno, Herrera, Liedholm.
Chiediamo: chi
era il migliore? «Scopigno senza dubbio, di gran lunga
il più
intelligente». Ed Helenio Herrera? «Parlava troppo e
combinava
un sacco di guai». E Liedholm? «Un fenomeno, ma troppo
attaccato
ai soldi, la cosa che gli interessava di più era il
contratto».
Anzalone
ha ingaggiato tre grandi allenatori però ha anche
affidato la squadra
a Trebiciani. «Allora non avete capito, dovevo
dimostrare di aver
fatto chiarezza, dovevo presentare al Palazzo una Roma
senza più
ombre».
Arrivato
alla Roma per curare il settore giovanile, dopo i
trionfi con l' Ostiense,
Gaetano Anzalone costruì una «Primavera » che
comprendeva,
Sandreani, Peccenini, Rocca; Di Bartolomei,Tovalieri,
Di Chiara, Lucci
e infine Bruno Conti. Ma davvero è stato un presidente
sconfìtto?
«Sì, perché non ho vinto con la prima squadra, però
ho messo la Roma in condizione di vincere, con un
bilancio sano - sennò
Viola non l'avrebbe comprata – e un vivaio di
straordinaria ricchezza tecnica».
Per gratitudine, lo hanno cancellato dalla storia
romanista. Stiamo per
scrivere l'unica cosa che forse Anzalone non ci
perdonerà: il presidente
dell' A.S.Roma dal 1971 al '79, non ha una tessera
omaggio. |
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