di Valerio Marchi
tratto da "Carta" 9/15 settembre 2004
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La sindrome del beduino:
L'amico del mio amico è mio amico
Il nemico del mio amico è mio nemico
L'amico del mio nemico è mio nemico
Il nemico del mio nemico è mio amico

Dove nascono gli ultras. Il calcio visto «dal basso»
di Valerio Marchi
Stretto tra i palazzi che si allungano fino a sbirciare nel terreno di gioco, con la sua forma squadrata e gli spalti schiacciati sul campo, lo stadio Marassi di Genova manifesta nella sua dislocazione e nella sua struttura la propria natura esplicitamente cittadina e monodisciplinare, da indiscussa cattedrale dell’antica e nobile tradizione calcistica genovese.
A Marassi, come in tutti gli altri stadi dedicati unicamente al calcio, per dieci mesi su dodici va in scena il medesimo spettacolo: niente meeting di atletica, niente concerti rock o pop, ma solo e soltanto il conflitto ludico-simbolico tra contrapposte comunità.
Correndo indietro nei secoli, oltre quel processo di regolamentazione che si sviluppa in Gran Bretagna nel corso dello scorso secolo, oltre le suddivisioni artificiose tra «soccer» e «rugby» e «football», tra palla tonda e palla ovale, tra uso dei piedi e uso delle mani, troviamo infatti alla base di questi sport moderni un gioco altomedievale in cui la figura dell’attore coincide con quella dello spettatore e, ancora oltre, con buona parte dei maschi adulti in ogni singola comunità, che troviamo ben rappresentato nell’«hurling over the country» dell’Inghilterra del XIV secolo.
Queste sfide tra comunità – che possono essere rappresentate da paesi differenti, ma anche da altre forme di aggregazione, quali gli scapoli contro gli ammogliati dello stesso paese, come avveniva nella cittadina britannica di Scone – si svolgono di solito nelle ricorrenze religiose o comunitarie e si caratterizzano per l’assenza di regole certe e uniformi sulla durata dell’incontro [che può raggiungere anche le 72 ore], sul perimetro di gioco [che spesso coinvolge l’intero territorio], sul numero dei partecipanti [trenta, cinquanta o più giocatori per parte], per il livello di violenza e il «tutto è permesso» che regola gli scontri in campo. L’agone assume, anzi, caratteristiche tali da essere considerato dalle autorità una vera forma di teppismo, un’aperta manifestazione di quell’aggressività e sfrenatezza popolare cui si vuol porre un freno attraverso la civilizzazione forzata dei costumi, oltre che una forte distrazione dal gioco marziale del tiro con l’arco. Da un lato la violenza incontrollata del calcio, dunque; dall’altro la tensione calibrata, fredda e funzionale [alla guerra] del tiro con l’arco: nelle scelte delle autorità, che giungeranno nel 1314 a porre fuorilegge l’«hurling over the country», si possono scorgere i primi segnali di quel processo di coartazione culturale delle classi subalterne, e più generalmente dei giovani d’ogni classe e ceto, che segnerà i secoli successivi e di cui la creazione del concetto di «sport» sarà parte integrante [Elias-Dunning, 1989].
Guerra o competizione?
La storia del calcio, dal XIV secolo ad oggi, coincide dunque con la storia della sua rielaborazione da conflitto simbolico tra comunità a competizione sportiva tra atleti, della sua progressiva regolamentazione secondo i dettami del nuovo ordine che, a partire soprattutto dalla seconda metà del XVIII secolo, verrà posto in opera prima contro le turbolenze dei giovani delle classi superiori e quindi, con l’allargamento del tempo libero e la trasformazione dei mezzi di produzione, contro quelle – ben più gravi – delle classi subalterne e delle loro «barbare e sfrenate» fasce giovanili.
Al momento della nascita del calcio modernamente inteso [Londra 26 ottobre 1863: fondazione della Football Association] troviamo infatti una situazione perfettamente regolamentata, almeno per quel che avviene in campo. Differente è la situazione sugli spalti, ove le due contrapposte comunità che di volta in volta formano il pubblico – di matrice prevalentemente «working class» – continuano a essere pervase dallo spirito originario dell’«hurling», partecipando attivamente all’incontro nelle forme spesso turbolente della tradizione contadina e operaia.
Tra il 1895 e il 1915 la Football Association assume 117 provvedimenti disciplinari contro squadre i cui sostenitori si sono macchiati di «disordini o comportamenti scorretti», tra cui risse, attacchi contro arbitri e giocatori della squadra avversaria, atti di vandalismo contro impianti sportivi e mezzi di trasporto. A volte le turbolenze sono tali da trasformarsi in scontri di piazza: dopo il match tra Greenock Morton e Port Glasgow: città paralizzata per molte ore, negozianti barricati nelle botteghe, diciannnove poliziotti all’ospedale e nove tifosi in galera [Durining- Murphy- Williams 1988].
Anche fuori dalla Gran Bretagna – in Italia, per esempio – si inizia ad assistere, nel XX secolo, ai primi casi di turbolenza calcistica: risse [Genoa-Andrea Doria, 1902], invasioni di campo [Juventus-Genoa, 1905], sassaiole contro l’abitro e intervento dei carabinieri [Andrea Doria-Internazionale, 1912], incidenti fuori dagli stadi [Milan-Andrea Doria, 1913; Lazio-Juventus Roma e Internazionale-Casale, 1914], colpi di pistola tra tifosi [Spes Livorno– Pisa sporting club, 1914].
Le due guerre mondiali, con tutto quello che avviene tra l’una e l’altra, sembrano modificare di poco l’approccio del pubblico al calcio, che è nel frattempo diventato un vero e proprio spettacolo di massa. Negli anni Cinquanta troviamo, sul fronte delle turbolenze, una situazione per molti versi simile a quella di quarant’anni prima: in Gran Bretagna, come in Italia e nel resto dell’Europa calcistica, si registrano scontri tra tifoserie e con le forze dell’ordine, invasioni di campo, aggressioni ad arbitri e giocatori. In Inghilterra la Football Association registra 238 incidenti tra il 1946 e 1959, mentre in Italia si assiste a una escalation che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, assume anche forme fino ad allora inedite quali le sassaiole contro i pullman delle squadre avversarie e le aggressioni contro giornalisti e dirigenti presenti in tribuna.
Gli anni cinquanta
In questi episodi di turbolenza, si registrano atti e comportamenti che ritroveremo, con le dovute differenze, nel movimento ultrà: eppure, nonostante l’oggettiva gravità di molti episodi, la violenza legata al calcio non viene ancora considerata un’emergenza sociale né viene riservato al tifoso il ruolo di Folk devil, come avverrà con gli ultràs.
Per comprendere compiutamente questo diverso approccio delle autorità e del sistema dei media alla questione della violenza calcistica si deve infatti tener conto non soltanto dell’aumento quantitativo e qualitativo degli incidenti che accompagna la nascita e l’elspansione del movimento ultrà, ma soprattutto delle differenti peculiarità conflittuali del «tifoso turbolento» e dell’ultrà.
Diversamente da quel che avverrà a partire da dieci anni più tardi, le violenze che animano gli stadi d’Europa fino agli anni Cinquanta sembrano raccordarsi soprattutto alla sfera comportamentale del gioco originario e, ancora oltre, alle tradizionali turbolenze ritualizzate delle classi subalterne preindustriali [dal carnevale alle feste del Misrule] delle campagne inglesi del XVII e XVIII secolo [Gillis 1981], valvole di sfogo attraverso cui la conflittualità popolare veniva incanalata e resa innocua.
Allo stesso modo, in un periodo – quale l’Italia degli anni Cinquanta – in cui ogni forma di dissenso o di conflittualità politica viene violentemente contrastata, la turbolenza dei tifosi di calcio è sì combattuta, ma non genera sindromi ansiose: il conflitto sociale – quello «vero», che terrorizza l’establishment – passa ancora altrove, attraverso le lotte contadine e operaie e le loro organizzazioni politiche e sindacali.
Eppure, qualche piccolo segnale di mutamento nella «weltanschauung» collettiva del tifoso si coglie già in questi anni Cinquanta, quando per esempio diminuiscono gli scontri tra tifoserie avverse e aumentano a dismisura le violenze contro arbitri e dirigenti; in qualche modo, contro le «istituzioni» dell’ormai affermato «show-biz» calcistico. Primi, vaghi segnali di nuove forme conflittuali che, pur restando nell’ambito del calcio, riusciranno, a partire dagli anni Sessanta, a esprimere valenze più generali fino a conformarsi in una vera e propria cultura antagonista.
L’Upton Park è lo storico stadio della squadra east-ender del West Ham United; ma, soprattutto, è uno dei luoghi che ha visto nascere e svilupparsi, verso la fine degli anni Sessanta, una cultura antagonista destinata a oltrepassare la Manica e a diffondersi velocemente in tutti gli stadi d’Europa: quella degli hooligan calcistici.
L’attuale hooliganismo nasce infatti nel corso del campionato inglese 1967 – 1968, quando «Alleanze ad hoc tra gruppi di adolescenti e di ragazzi dei quartieri e delle periferie operaie iniziarono a rivendicare le curve dei campi di calcio come territori propri e, in modo più preordinato di prima, a escludere da queste zone sia gli spettatori più anziani che i giovani sostenitori di squadre avversarie» [Dunning-Murphy-Williams 1998].
Il controllo del territorio
Questo senso aggressivo del territorio è secondo le tesi della scuola sociologica di Leicester, frutto di fattori prettamente socioculturali: questi giovani «provengono dagli strati più bassi della classe operaia, vivono una comune condizione di disagio e marginalità sociale e riproducono nei gruppi hooligan l’appartenenza al proprio quartiere o al proprio rione. Il loro comportamento violento si spiega col fatto che hanno fatto proprio lo stile maschile violento tipico della cultura di vita dello strato operaio da cui provengono» [Roversi 1992].
Basta, del resto, attraversare le zone del North Bank londinese più periferico, conoscerne la lunga storia di disoccupazione e di isolamento politico-culturale, per comprendere i motivi dell’altissimo livello di conflittualità sociale che gli «hools» inglesi hanno manifestato fin dagli esordi e che, perpetuandosi [pur se in termini spesso differenti] nel tempo e in ogni possibile contesto europeo, hanno reso questa cultura una delle più attrezzate agenzie di conflitto sorte negli ultimi venti o trent’anni, in grado di interpretare – e a volte di anticipare – dinamiche sociali ben più vaste e articolate. Nei suoi trent’anni di vita, il movimento ultrà ha in breve dimostrato di essere una perfetta cartina di tornasole delle tendenze comportamentali in atto nella società, ponendosi come un inevitabile banco di prova per chiunque intenda affrontare quella che viene definita – con una certa dose di approssimazione e d’ipocrisia – la «questione giovanile».
Rispecchiando alla perfezione il superamento del dato anagrafico nell’ambito delle sfere sociocomportamentali tradizionalmente riconducibili ai «modelli giovanili», la cultura ultrà supera infatti ogni limitazione per andare a coprire una vasta fascia d’età, dalla prima adolescenza [dodici-tredici anni] alla piena maturità [quaranta e oltre]. Parlare degli ultrà non significa dunque parlare automaticamente di «giovani», pur se il movimento è composto prevalentemente da ragazzi e da ragazze.
La caratteristica principale di questa cultura non è il dato anagrafico – non si è alla presenza del tipico «peers group» – ma quello comportamentale: da Mosca a Lisbona, da Atene a Glasgow, l’ultrà trova un comune denominatore non nell’età, ma nel senso di contrapposizione verso ogni forma di autorità costituita [da quelle sportive a quelle politico-istituzionali]. Unico, vero collante di un movimento, per altri versi frammentato, è il rifiuto di ogni forma di controllo da parte di altri, dalle società sportive [da cui la contrapposizione con i club riconosciuti e coordinati dalle società stesse] alle forze di polizia [considerate una «tribù avversaria»].
Una seconda caratteristica comune a tutto il movimento è rappresentata dai forti sentimenti comunitari che lo animano e che si manifestano soprattutto nelle valenze assegnate alla curva: da semplice contenitore di spettatori a luogo sacro e inviolabile, da difendere contro ogni possibile invasione di tifosi avversari [il «take an end» di britannica memoria] o dagli sconfinamenti della «blue line gang» [ovvero, nello slang dei ghetti di Los Angeles, l’unica gang metropolitana dotata di lampeggiatori azzurri], in cui atteggiamenti e comportamenti vengono regolati da leggi proprie.
Nella cultura ultrà il senso conflittuale si coniuga con questa visione dei rapporti di curva: il movimento si autorappresenta come una serie di comunità che si aggregano intorno a un ideale – la squadra – e a un territorio liberato, portatrici di una necessità di aggregazione che si manifesta non soltanto all’interno del gruppo, ma anche attraverso una rete di amicizie che va oltre la comunità di appartenenza. Nel movimento, questo duplice atteggiamento diviene esplicito nei rapporti tra differenti tifoserie, nella capacità di creare rapporti con «gli altri» in positivo e in negativo; nei gemellaggi come nelle rivalità.
La sindrome del beduino
Nonostante l’ambivalenza insita in questo comportamento, che viene definito di «sindrome del beduino» [Harrison 1974], la cultura ultrà è invece tradizionalmente associata soprattutto al meccanismo dell’amico-nemico, alla percezione dell’altro come presenza inevitabilmente ostile. Come sempre avviene nel rapporto tra cultura dominante e sottoculture, anche in questo caso un atteggiamento insito nel nostro modello di sviluppo culturale e sociopolitico viene dunque «scaricato» sul Folk devil di turno [Marchi 1994]: a essere profondamente intriso di xenofobia non è specificatamente il movimento ultrà, ma il nostro modello sociale nella sua interezza, soprattutto istituzionale; e la curva rende semplicemente [e ingenuamente] più esplicito, più grossolanamente «visibile» quel che nelle istituzioni e nella cultura dominante è tanto più grave quanto più sfumato.
Nelle proprie caratteristiche principali, la cultura ultrà si manifesta, insomma, come un movimento di resistenza contro due processi sociali: quello del progressivo controllo politico dei comportamenti e quello di mercificazione del football, inteso non come puro gioco ma come luogo sociale in cui si concentrano interessi e conflitti di natura sia economica che culturale.
In questo contesto, risulta evidente come l’interazione tra l’agire sociale e l’agire «di curva» finisca per rappresentare un rapporto di scambio politico bidirezionale, basti pensare alla contaminazione tra i linguaggi delle curve e quelli, ad esempio, dei cortei.
Specialmente in Italia, per le caratteristiche che il movimento assume, si registra una forte interazione tra curva e dinamiche sociopolitiche. Il gruppo ultrà nasce, infatti, appropriandosi delle forme organizzative e dei linguaggi dei modelli politici antagonisti dei primi anni Settanta. Per Antonio Roversi sono tre gli elementi che contribuiscono alla nascita del fenomeno: «Autonomia dalla tutela paterna, modelli para-politici di coesione del gruppo, assimilazione per via imitativa delle forme inedite di tipo hooligan» [Roversi 1992], e con essi di inconsapevole ma esplicita capacità di interpretare e rielaborare, in forme simboliche, la conflittualità sociale.
Nato come simulacro, come uno slittamento di scenario nell’ambito dei conflitti di classe, con la rottura del rapporto tra conflittualità giovanile e sfera politica maturata a partire dalla fine degli anni Settanta, il movimento ultrà si ritrova però a sopravvivere al proprio modello originario. E quel che agli inizi si candidava a essere un «simulacro simbolico» [Dal Lago 1990] del conflitto politico, si ritrova a dover interpretare il ruolo di principale, se non unica, agenzia antagonista di massa.
Considerati da giovani e meno giovani sempre meno adatti, spesso addirittura mistificanti, i codici della politica lasciano il passo a nuove forme di conflitto che, confermando le capacità divinatorie delle sottoculture giovanili, si tingono di quei toni impolitici e a tratti teppistici che rappresentano da sempre la realtà di strada [Humpries 1995].

Tratto da «La sindrome di Andy Capp cultura di strada e conflitto giovanile». Ringraziamo autore ed editore



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