“oh sono le tre,
è suonata la sveglia” Mi tirai su di
scatto. Sveglio, completamente sveglio, senza neanche più una briciola
di sonno. Era dai tempi delle gite scolastiche che non mi capitava di svegliarmi
contento di alzarmi. Andai in bagno.
Mentre pisciavo appoggiai la fronte alle piastrelle verdi, fresche e mi
soffermai a pensare alla giornata che avrei dovuto affrontare. Erano anni
che aspettavo questo momento. 18 per la precisione. Diciotto lunghissimi
anni. Era quasi bello aver aspettato tutto questo tempo. Uscii dal bagno:
profumo di caffè. Marina mi aveva fatto il caffè. Poteva
restarsene a dormire ma anche lei aspettava questo momento da troppo tempo. “Ti ho fatto
il caffè” disse “Grazie” Siamo di poche
parole noi. Non ci parliamo molto. Ma il bene che
ci vogliamo era lì, palpabile, in quel pezzetto di cucina, mentre
ci guardavamo pieni di speranza e di paura. Paura. Si può
avere paura di una partita di calcio? Provate voi a
giocare le più belle partite di qualificazione di Coppa dei Campioni.
Provate a ribaltare in casa risultati sfavorevoli. Provate a giocarvela
nel vostro stadio la finale. Provate ad essere
lì a cantare a squarciagola per ore e ore e poi …. Perdere. Perdere
ai rigori e sapere che un’altra occasione così forse non ti ricapita
più. O forse ti ricapita dopo 18 anni. La Finale all’Olimpico. Queste cose le
pensavamo tutti e due in quel momento. E avevamo paura. Avete mai pianto
per una partita? No? Beh allora evitate di leggere oltre, non capireste. “Vado” sussurrai
piano “Ti telefono appena posso” “Sì vai” Era buio fuori.
Bellissimo. Silenzioso. Vellutato. Imboccai Viale
Palmiro Togliatti alle 3,40. Alle 4 ero già fuori lo Stadio Olimpico.
Lato Monte Mario. Insieme ad altri non so quanti. Una marea. Tutti in fila
ad aspettare che aprissero i botteghini. Mi metto in fila anche io continuando
a pensare alla partita. Guardo l’orologio.
Le 5. “Scusa” faccio
al pischello che mi sta davanti “A che ora aprono” “Hanno detto
alle 9, ma se je famo casino, forse apreno prima” Ha una faccia
pulita. Nel senso che ha l’aspetto di un bravo ragazzo. La faccia, intesa
come viso invece, troppo pulita non è. Ha ancora quelle formazioni
granulose ai bordi degli occhi: caccole si dice a Roma. In italiano non
so. Mi sa che non se l’è neanche lavato il viso prima di uscire
da casa. Non so perché, ma questa cosa mi fa tenerezza. Probabilmente
una levataccia del genere riesce a fartela fare solo la Roma. Le trasferte
e le file ai botteghini. Certe volte mi chiedo se ne vale la pena, ma questa
è una risposta che non mi voglio dare. O meglio non voglio interrogarmi
razionalmente su una cosa che razionale non è. Le 6. “Romaromaroma
core de sta città” Mi squilla il cellulare. La suoneria di Romaromaroma,
incredibile a dirsi, me l’ha inviata un milanese (tifoso della Roma però);
il pischellodellecaccole mi da una gran pacca sulla spalla: deve aver apprezzato. Do un’occhiata
al display: CASA. “Ciao Marina” “Come va?” “E niente, sto
in fila” dissi, mentre il pischello mi guardava con un sorriso. Probabilmente
voleva notizie della suoneria. “Va bene, allora
ti saluto. Ciao” “Ciao” Infatti, appena
rimisi il telefono in tasca mi chiese “Come hai fatto
ad avere quella suoneria?” Non sa che cosa
ha innestato. Eh già perché io la suoneria l’ho avuta da
Valerio, un ragazzo che ho conosciuto tramite internet, chattando di Roma,
e in questo modo non ho conosciuto solo lui. Ho fatto amicizia con persone
veramente fantastiche: l’Impero Giallorosso. E se c’è una cosa che
mi piace fare è parlare di Romanisti in the world. “Me l’ha mandata
un ragazzo di Arese, provincia di Milano” voglio vedere fino a che punto
è romanista. Non mi delude
“Il paese di Supermarco!” esclama “Esatto” lo sapevo
che eri simpatico. “Ma questo che
te l’ha mandata è della Roma?” “Si” “Ammazza, grandissimo” “E pensa che
conosco romanisti pure in Indonesia” “Davvero? E dove
si trova precisamente l’Indonesia?” Mi sta bene.
Così imparo a farmi gli affari miei. “Beh, lo dice la parola stessa:
Indonesia, dalle parti dell’India”. Spero ardentemente che sia così:
non mi va di fare figure di merda. “Beh sì
certo” annuì per niente interessato “ma come si fa per avere la
suoneria?” “Vabbè
dammi il tuo numero di cellulare. Vedrò cosa posso fare.” “Davvero? Grazie” Le 7,30 Manca poco. Poco. Alle 10 avevo
davanti a me solo altre due persone. Alle 10,20 mi dirigevo, ancora frastornato,
verso la macchina. I due tagliandi
ce li avevo nella tasca della camicia. Chiusa col bottone: non si sa mai.
Mi sembrava di sentirne l’odore. Odore di chiuso e petrolio insieme. Buonissimo.
E avevo anche l’impressione che stessero direttamente a contatto con la
carne viva invece che nella nicchia di stoffa. Nella tasca due biglietti
e l’attesa. Attraversai Lungotevere
di Revel quasi con le ali ai piedi e la testa tra le nuvole. Troppo tra
le nuvole. L’auto che sopraggiungeva non la vidi proprio.
OTTAVI
I riflettori dello
stadio mandavano una luce fortissima, quasi non riuscivo a vedere il rettangolo
di gioco, poi sentii una voce. Finalmente Carlo Zampa annunciava le formazioni: “Antonio” Che cazzo dice
The Voice: non c’è nessun giocatore di nome Antonio. Casomai Antoniocarlos.
Antonio è il mio di nome. “Antonio” “Chi è?” Nessuna risposta.
Ma la voce parlò di nuovo “Dobbiamo andare” “Andare dove?
Chi sei? Dove ……..” Mi andò
di traverso la saliva: La Luce, La Voce. I soliti luoghi comuni per indicare…. “Sono morto?”
chiesi con un filo di voce, forse neanche mi uscì suono, ma la Voce
mi rispose ugualmente. Dolcemente. “Sì Antonio” Oddio, oddioddio,
nooooo. Per favore no. Non adesso. Non oggi. Non questa settimana. Per
favore. Ti prego. Ti prego non questa settimana. “Antonio, una
settimana non ti cambierebbe nulla e non sarebbe giusto. E’ ora il tuo
momento. Vieni. E’ molto più bello di quanto pensi. Andiamo” Ormai piangevo
e urlavo come un bambino. “Ma non è
giusto. Sono diciotto anni che aspetto questo momento. Non è giusto.
Una settimana mi cambierebbe moltissimo. Solo una settimana. Una sola.
Una”. Mi sentivo più
defraudato per la perdita della Finale che non per la mia vita. Cercai di pensare
a qualche scusa per convincerlo. Morire alla vigilia di una finale. Della
Finale. Un’inculata pazzesca. L’unica cosa che mi veniva in mente, però,
rischiava di farmi portar via ancora prima del necessario. Era l’immagine
di Gesù con la maglia della Roma, o l’immagine della Sacra Sindone
che si trasformava in Batistuta. Per un attivo mi scappò anche da
ridere. E’ tipico di me quello di pensare a cose comiche nei momenti meno
opportuni. Non sapevo più che altro inventarmi. E, infatti, cominciai
a sentirmi trasportato via. Era una sensazione molto bella mi ricordava
quella volta che gli amici, per farmi uno scherzo, mi avevano dato il Tavor
di nascosto. Sto andando, andando, vado.
QUARTI
“Antonio, è
importante che la tua anima sia serena. Non puoi continuare ad avere il
cuore così oppresso. Devi diventare come gli altri, altrimenti non
potremo più tenerti qui. Lo sai questo vero?” “Lo so. E mi
sforzo di essere come volete voi, ma mi avete svegliato dal sogno più
sognato della mia vita. Io non voglio essere ancora vivo, ho accettato
la mia morte, non ho rimpianti. Ma non posso non pensare a come sarebbe
stato quel mercoledì di maggio che non ho vissuto”. La Voce stette
zitta un attimo poi riparlò “Forse sarebbe
stato bruttissimo. Ci hai pensato?” “Meglio brutto
che niente. E’ come la “pay per view”: meglio non vedere la partita che
vederla in televisione. Io sono fatto così.” Ci fu un altro
lungo silenzio, tanto che credetti che la Voce se ne fosse andata. Invece
riparlò: “Allora Antonio,
se è vero che hai accettato la tua morte serenamente, puoi tornare
sulla Terra e vedere come andrà questa partita. Non ti faccio raccomandazioni.
Tu sai come dovrai essere al tuo ritorno”. Non so ringraziare
io. Ogni volta che qualcuno mi fa una gentilezza o un favore mi chiedo
se veramente me lo merito e mi sento un ingrato. Guarda un po’ che razza
di carattere che c’hò. Però stavolta lo dissi grazie, sperando
che si sentisse tutta la gratitudine.
SEMIFINALI
Ed eccomi qui. E’
Quel Mercoledì. Sono le 7 di sera. Sto a casa mia. Seduto di fronte
a Marina al tavolo della cucina. Piange. E si gira e rigira tra le mani
i due biglietti. Alzati Marina. Dobbiamo andare o faremo tardi. Alzati
Marina o non troverai da parcheggiare. Alzati Marina non puoi non andare. Si alza di scatto.
Quasi mi avesse sentito. C’è capitato spesso di dire esattamente
la cosa che stava pensando l’altro. E’ una delle cose che ci faceva sentire
più vicini, complici. Ma non posso pensare a questo se voglio mantenere
la promessa. Scusami Marina. Prende la giacca,
la sciarpa “a.s. roma non sarai mai sola”, i due biglietti e alza
il telefono: “Un taxi per
cortesia. Via dei Romanisti 125”. (esiste veramente a Torre Spaccata N.d.A.). Saliamo sul taxi.
Il tassinaro si gira leggermente per avere direttive da Marina. “Lungotevere
di ………” le si spezza la voce. Coraggio Marina “Stadio Olimpico” “Ah signo’ e
come c’arrivo allo Stadio Olimpico stasera co la finale. Io la lascio su
Lungotevere di Revel se a lei va bene” “Si, si va benissimo.
Grazie” La Palmiro Togliatti
era stranamente sgombra. Un po’ di traffico lo trovammo sulla Tangenziale
all’altezza di Ponte Lanciani. Alle 19,45 scendemmo dal taxi. Marina si fermò
al semaforo, immobile, lo sguardo fisso in un punto. Guardai anch’io. C’era
una sagoma bianca per terra. La mia. Non guardare
Marina. Attraversiamo che è verde. Muoviti dai. Si mosse, perfortuna.
Costretta anche dal fiume di persone che si accentravano tutte verso un
unico punto. Un unico traguardo. C’era la fila
ai cancelli. Ma non troppa. Per questioni di sicurezza i cancelli erano
stati aperti alle 17. Marina tirò
fuori i due biglietti e li consegnò . Anche il tizio dopo di lei
aveva il biglietto in mano. L’omino al cancello guardò Marina interrogativamente
e chiese “Chi deve entrare
con lei?” “Sono sola” “E allora perché
m’ha dato due biglietti?” “Li strappi entrambi
per piacere” L’omino alzò
lo sguardo interrogativo verso Marina. Forse capì. “Prego” disse
dolcemente, riconsegnando i due biglietti “strappati” Passammo il cordone
di controllo senza essere perquisiti. Cioè senza che nessuno perquisisse
Marina. Non la perquisivano mai. Ricordo che ne ridevamo molto. Devo avere
la faccia da cogliona, diceva. No, solo da brava ragazza le rispondevo.
Bleah le brave ragazze mi fanno venire l’orticaria. Rideva. Nonostante l’orario
– erano ormai le 20,15 – i nostri posti erano ancora liberi. Marina si sedette.
Il seggiolino alla sua sinistra vuoto. Ci siamo sempre seduti così.
Per scaramanzia: io a sinistra, lei a destra. In curva sud
apparve uno striscione: ANTONIO PER SEMPRE NEI NOSTRI CUORI. Uno striscione
per me. Si fa un bel
parlare di violenza negli stadi. Da riempirci pagine e pagine di giornali,
di libri a volte. E’ un argomento che “tira”. E tutti li a scriverci su
cose sociologiche. Disagi giovanili e altre menate del genere. La verità
è che questi signori qua non ci hanno mai messo piede in una curva.
Non voglio dire che in curva non ci siano cretini. Sissignori ce ne sono
diversi. Ma ce ne sono anche nel mio palazzo. Andate ad una qualsiasi riunione
condominiale e vedrete se non è così. Io ci sono stato
tanti anni in curva. Mi sono fatto tanti amici. Mi sono fatto tante risate.
E tanti pianti. Ho imparato molto. E adesso… Questo striscione… Grazie
amici miei. PER SEMPRE ANCHE NEL MIO CUORE. Marina mise gli
occhiali scuri. Ti prego non
piangere. Ti prego. Le 20 ,25 Una
coreografia da mille brividi in tutto il corpo. Geniale. I cartoncini colorati
che servono per “disegnare” la coreografia stessa sono double face. Due
coreografie in una. Ad un cenno di un capotifoso la coreografia si trasforma.
Dapprima un grande cuore tricolore circondato dal giallorosso eppoi un
enorme scritta: COMUNQUE VADA GRAZIE RAGAZZI. Se potessi piangerei.
Qualcuno lo fa senza ritegno e senza vergogna. Una corrente ci attraversa
tutti. Tutti pronti. Impazienti, ma stranamente tranquilli.
FINALE
Passaggio filtrante
di Emerson a cercare un corridoio che liberi Totti, scattato nel frattempo
in avanti. Montero alza il braccio a invocare il fuori gioco ma l’arbitro
spagnolo non lo caca proprio e lo stronzo si becca pure un concerto di
fischi ad ultrasuoni. El Bimbo de Oro vede Batigol libero sulla destra,
cross millimetrico e bomba alle spalle di Van der Sar. Un boato, un
urlo unico, un orgasmo collettivo. E’ felicità allo stato puro.
E’ tutte le gioie represse che ci siamo dovuti ringoiare che evadono insieme.
E’ Marina che singhiozza. E’ tutto lo stadio che singhiozza. Palla al centro
e si ricomincia. Mancano 20 minuti. E si comincia ad aver paura. Un deja
vu collettivo ci fa da monito, e questo goal di vantaggio, così
prezioso, ci sembra un po’ fragile. Mancano 10 minuti.
Davids ruba palla a Zago che se la lega al dito e lo segue per vendicarsi.
Passa a Inzaghi che (“culo de piombo”) cade, secondo lui perché
Samuel l’ha spinto, e si guadagna una punizione dai 30 metri. Tira Pierpiero.
La palla supera la barriera sulla destra, raccoglie superPippa Inzaghi
marcato stretto da Zago, entra in aerea e… ricade. Fischio. Rigore. Silenzio. Se fosse scappato
uno starnuto ad un qualsiasi spettatore si sarebbe sentito per tutto lo
stadio. Palla sugli undici
metri. Inzaghi e Delpiero discutono. Batte Inzaghi. Fischio. Marina non
guarda. Tiro. Traversa e Zago che si precipita a spazzare via. UN URLO LIBERATORIO.
E’ l’apoteosi. Si balla. Si piange. Si ride. Si canta. Mancano 5 minuti
più il recupero. Tommasi ruba
palla a Zidane, applausi per lui. Due minuti di seguito. Emerson detta
i tempi, passa a Totti, è chiuso. Retropassaggio a Tommasi. Tiro.
Goal. Damiano Tommasi goal. “Ma che sete
venu, ma che sete venu, ma che sete venuti a fa. Oh ooh ooh oh ohoh
ma che sete venu, ma che sete venu, ma che sete venuti a fa. Oh ooh ooh
oh ohoh ”. Francesco tira
su la Coppa, la bacia e la ritira su. Grazieadio io
c’ero. Devo andare.
Mi giro verso Marina, le faccio una carezza e prendo dalla sua tasca il
mio biglietto. “Sei pronto Antonio?”
la Voce. Me l’aspettavo “Si sono pronto.
Andiamo e grazie”. Me ne vado mentre
la mia Roma fa il giro di campo con la Coppa. Marina saltella insieme agli
altri. Mette le mani in tasca. Tira fuori il biglietto. Cerca l’altro.
Guarda su e sorride.