Cristina De Cotiis
LA  FINALE

 SEDICESIMI
“oh sono le tre, è suonata la sveglia”
Mi tirai su di scatto. Sveglio, completamente sveglio, senza neanche più una briciola di sonno. Era dai tempi delle gite scolastiche che non mi capitava di svegliarmi contento di alzarmi.
Andai in bagno. Mentre pisciavo appoggiai la fronte alle piastrelle verdi, fresche e mi soffermai a pensare alla giornata che avrei dovuto affrontare. Erano anni che aspettavo questo momento. 18 per la precisione. Diciotto lunghissimi anni. Era quasi bello aver aspettato tutto questo tempo.
Uscii dal bagno: profumo di caffè. Marina mi aveva fatto il caffè. Poteva restarsene a dormire ma anche lei aspettava questo momento da troppo tempo.
“Ti ho fatto il caffè” disse
“Grazie”
Siamo di poche parole noi. Non ci parliamo molto.
Ma il bene che ci vogliamo era lì, palpabile, in quel pezzetto di cucina, mentre ci guardavamo pieni di speranza e di paura.
Paura. Si può avere paura di una partita di calcio?
Provate voi a giocare le più belle partite di qualificazione di Coppa dei Campioni. Provate a ribaltare in casa risultati sfavorevoli.
Provate a giocarvela nel vostro stadio la finale.
Provate ad essere lì a cantare a squarciagola per ore e ore e poi ….
Perdere. Perdere ai rigori e sapere che un’altra occasione così forse non ti ricapita più. O forse ti ricapita dopo 18 anni. La Finale all’Olimpico.
Queste cose le pensavamo tutti e due in quel momento. E avevamo paura. Avete mai pianto per una partita? No? Beh allora evitate di leggere oltre, non capireste.
“Vado” sussurrai piano “Ti telefono appena posso”
“Sì vai”
Era buio fuori. Bellissimo. Silenzioso. Vellutato.
Imboccai Viale Palmiro Togliatti alle 3,40. Alle 4 ero già fuori lo Stadio Olimpico. Lato Monte Mario. Insieme ad altri non so quanti. Una marea.
Tutti in fila ad aspettare che aprissero i botteghini. Mi metto in fila anche io continuando a pensare alla partita.
Guardo l’orologio. Le 5.
“Scusa” faccio al pischello che mi sta davanti “A che ora aprono”
“Hanno detto alle 9, ma se je famo casino, forse apreno prima”
Ha una faccia pulita. Nel senso che ha l’aspetto di un bravo ragazzo. La faccia, intesa come viso invece, troppo pulita non è. Ha ancora quelle formazioni granulose ai bordi degli occhi: caccole si dice a Roma. In italiano non so. Mi sa che non se l’è neanche lavato il viso prima di uscire da casa. Non so perché, ma questa cosa mi fa tenerezza.
Probabilmente una levataccia del genere riesce a fartela fare solo la Roma. Le trasferte e le file ai botteghini. Certe volte mi chiedo se ne vale la pena, ma questa è una risposta che non mi voglio dare. O meglio non voglio interrogarmi razionalmente su una cosa che razionale non è.
Le 6.
“Romaromaroma core de sta città” Mi squilla il cellulare. La suoneria di Romaromaroma, incredibile a dirsi, me l’ha inviata un milanese (tifoso della Roma però); il pischellodellecaccole mi da una gran pacca sulla spalla: deve aver apprezzato.
Do un’occhiata al display: CASA.
“Ciao Marina”
“Come va?”
“E niente, sto in fila” dissi, mentre il pischello mi guardava con un sorriso. Probabilmente voleva notizie della suoneria.
“Va bene, allora ti saluto. Ciao”
“Ciao”
Infatti, appena rimisi il telefono in tasca mi chiese
“Come hai fatto ad avere quella suoneria?”
Non sa che cosa ha innestato. Eh già perché io la suoneria l’ho avuta da Valerio, un ragazzo che ho conosciuto tramite internet, chattando di Roma, e in questo modo non ho conosciuto solo lui. Ho fatto amicizia con persone veramente fantastiche: l’Impero Giallorosso. E se c’è una cosa che mi piace fare è parlare di Romanisti in the world.
“Me l’ha mandata un ragazzo di Arese, provincia di Milano” voglio vedere fino a che punto è romanista.
Non mi delude “Il paese di Supermarco!” esclama
“Esatto” lo sapevo che eri simpatico.
“Ma questo che te l’ha mandata è della Roma?”
“Si”
“Ammazza, grandissimo”
“E pensa che conosco romanisti pure in Indonesia”
“Davvero? E dove si trova precisamente l’Indonesia?”
Mi sta bene. Così imparo a farmi gli affari miei. “Beh, lo dice la parola stessa: Indonesia, dalle parti dell’India”. Spero ardentemente che sia così: non mi va di fare figure di merda.
“Beh sì certo” annuì per niente interessato “ma come si fa per avere la suoneria?”
“Vabbè dammi il tuo numero di cellulare. Vedrò cosa posso fare.”
“Davvero? Grazie”
Le 7,30
Manca poco. Poco.
Alle 10 avevo davanti a me solo altre due persone. Alle 10,20 mi dirigevo, ancora frastornato, verso la macchina.
I due tagliandi ce li avevo nella tasca della camicia. Chiusa col bottone: non si sa mai. Mi sembrava di sentirne l’odore. Odore di chiuso e petrolio insieme. Buonissimo. E avevo anche l’impressione che stessero direttamente a contatto con la carne viva invece che nella nicchia di stoffa. Nella tasca due biglietti e l’attesa.
Attraversai Lungotevere di Revel quasi con le ali ai piedi e la testa tra le nuvole. Troppo tra le nuvole. L’auto che sopraggiungeva non la vidi proprio. 
OTTAVI
I riflettori dello stadio mandavano una luce fortissima, quasi non riuscivo a vedere il rettangolo di gioco, poi sentii una voce. Finalmente Carlo Zampa annunciava le formazioni:
“Antonio”
Che cazzo dice The Voice: non c’è nessun giocatore di nome Antonio. Casomai Antoniocarlos. Antonio è il mio di nome.
“Antonio”
“Chi è?”
Nessuna risposta. Ma la voce parlò di nuovo
“Dobbiamo andare”
“Andare dove? Chi sei? Dove ……..”
Mi andò di traverso la saliva: La Luce, La Voce. I soliti luoghi comuni per indicare….
“Sono morto?” chiesi con un filo di voce, forse neanche mi uscì suono, ma la Voce mi rispose ugualmente. Dolcemente.
“Sì Antonio”
Oddio, oddioddio, nooooo. Per favore no. Non adesso. Non oggi. Non questa settimana. Per favore. Ti prego. Ti prego non questa settimana.
“Antonio, una settimana non ti cambierebbe nulla e non sarebbe giusto. E’ ora il tuo momento. Vieni. E’ molto più bello di quanto pensi. Andiamo”
Ormai piangevo e urlavo come un bambino.
“Ma non è giusto. Sono diciotto anni che aspetto questo momento. Non è giusto. Una settimana mi cambierebbe moltissimo. Solo una settimana. Una sola. Una”.
Mi sentivo più defraudato per la perdita della Finale che non per la mia vita.
Cercai di pensare a qualche scusa per convincerlo. Morire alla vigilia di una finale. Della Finale. Un’inculata pazzesca. L’unica cosa che mi veniva in mente, però, rischiava di farmi portar via ancora prima del necessario. Era l’immagine di Gesù con la maglia della Roma, o l’immagine della Sacra Sindone che si trasformava in Batistuta. Per un attivo mi scappò anche da ridere. E’ tipico di me quello di pensare a cose comiche nei momenti meno opportuni. Non sapevo più che altro inventarmi. E, infatti, cominciai a sentirmi trasportato via. Era una sensazione molto bella mi ricordava quella volta che gli amici, per farmi uno scherzo, mi avevano dato il Tavor di nascosto. Sto andando, andando, vado.
 
QUARTI
“Antonio, è importante che la tua anima sia serena. Non puoi continuare ad avere il cuore così oppresso. Devi diventare come gli altri, altrimenti non potremo più tenerti qui. Lo sai questo vero?”
“Lo so. E mi sforzo di essere come volete voi, ma mi avete svegliato dal sogno più sognato della mia vita. Io non voglio essere ancora vivo, ho accettato la mia morte, non ho rimpianti. Ma non posso non pensare a come sarebbe stato quel mercoledì di maggio che non ho vissuto”.
La Voce stette zitta un attimo poi riparlò
“Forse sarebbe stato bruttissimo. Ci hai pensato?”
“Meglio brutto che niente. E’ come la “pay per view”: meglio non vedere la partita che vederla in televisione. Io sono fatto così.”
Ci fu un altro lungo silenzio, tanto che credetti che la Voce se ne fosse andata. Invece riparlò:
“Allora Antonio, se è vero che hai accettato la tua morte serenamente, puoi tornare sulla Terra e vedere come andrà questa partita. Non ti faccio raccomandazioni. Tu sai come dovrai essere al tuo ritorno”.
Non so ringraziare io. Ogni volta che qualcuno mi fa una gentilezza o un favore mi chiedo se veramente me lo merito e mi sento un ingrato. Guarda un po’ che razza di carattere che c’hò. Però stavolta lo dissi grazie, sperando che si sentisse tutta la gratitudine. 
SEMIFINALI
Ed eccomi qui. E’ Quel Mercoledì. Sono le 7 di sera. Sto a casa mia. Seduto di fronte a Marina al tavolo della cucina. Piange. E si gira e rigira tra le mani i due biglietti. Alzati Marina. Dobbiamo andare o faremo tardi. Alzati Marina o non troverai da parcheggiare. Alzati Marina non puoi non andare.
Si alza di scatto. Quasi mi avesse sentito. C’è capitato spesso di dire esattamente la cosa che stava pensando l’altro. E’ una delle cose che ci faceva sentire più vicini, complici. Ma non posso pensare a questo se voglio mantenere la promessa. Scusami Marina.
Prende la giacca, la sciarpa “a.s. roma non sarai mai sola”,  i due biglietti e alza il telefono:
“Un taxi per cortesia. Via dei Romanisti 125”. (esiste veramente a Torre Spaccata N.d.A.).
Saliamo sul taxi. Il tassinaro si gira leggermente per avere direttive da Marina.
“Lungotevere di ………” le si spezza la voce.
Coraggio Marina
“Stadio Olimpico”
“Ah signo’ e come c’arrivo allo Stadio Olimpico stasera co la finale. Io la lascio su Lungotevere di Revel se a lei va bene”
“Si, si va benissimo. Grazie”
La Palmiro Togliatti era stranamente sgombra. Un po’ di traffico lo trovammo sulla Tangenziale all’altezza di Ponte Lanciani. Alle 19,45 scendemmo dal taxi.
Marina si fermò al semaforo, immobile, lo sguardo fisso in un punto. Guardai anch’io. C’era una sagoma bianca per terra. La mia.
Non guardare Marina. Attraversiamo che è verde. Muoviti dai.
Si mosse, perfortuna. Costretta anche dal fiume di persone che si accentravano tutte verso un unico punto. Un unico traguardo.
C’era la fila ai cancelli. Ma non troppa. Per questioni di sicurezza i cancelli erano stati aperti alle 17.
Marina tirò fuori i due biglietti e li consegnò . Anche il tizio dopo di lei aveva il biglietto in mano. L’omino al cancello guardò Marina interrogativamente e chiese
“Chi deve entrare con lei?”
“Sono sola”
“E allora perché m’ha dato due biglietti?”
“Li strappi entrambi per piacere”
L’omino alzò lo sguardo interrogativo verso Marina. Forse capì.
“Prego” disse dolcemente, riconsegnando i due biglietti “strappati”
Passammo il cordone di controllo senza essere perquisiti. Cioè senza che nessuno perquisisse Marina. Non la perquisivano mai. Ricordo che ne ridevamo molto. Devo avere la faccia da cogliona, diceva. No, solo da brava ragazza le rispondevo. Bleah le brave ragazze mi fanno venire l’orticaria. Rideva.
Nonostante l’orario – erano ormai le 20,15 – i nostri posti erano ancora liberi.
Marina si sedette. Il seggiolino alla sua sinistra vuoto. Ci siamo sempre seduti così. Per scaramanzia: io a sinistra, lei a destra.
In curva sud apparve uno striscione: ANTONIO PER SEMPRE NEI NOSTRI CUORI. Uno striscione per me.
Si fa un bel parlare di violenza negli stadi. Da riempirci pagine e pagine di giornali, di libri a volte. E’ un argomento che “tira”. E tutti li a scriverci su cose sociologiche. Disagi giovanili e altre menate del genere. La verità è che questi signori qua non ci hanno mai messo piede in una curva. Non voglio dire che in curva non ci siano cretini. Sissignori ce ne sono diversi. Ma ce ne sono anche nel mio palazzo. Andate ad una qualsiasi riunione condominiale e vedrete se non è così.
Io ci sono stato tanti anni in curva. Mi sono fatto tanti amici. Mi sono fatto tante risate. E tanti pianti. Ho imparato molto. E adesso… Questo striscione… Grazie amici miei. PER SEMPRE ANCHE NEL MIO CUORE.
Marina mise gli occhiali scuri.
Ti prego non piangere. Ti prego.
Le 20 ,25 Una coreografia da mille brividi in tutto il corpo. Geniale. I cartoncini colorati che servono per “disegnare” la coreografia stessa sono double face. Due coreografie in una. Ad un cenno di un capotifoso la coreografia si trasforma. Dapprima un grande cuore tricolore circondato dal giallorosso eppoi un enorme scritta: COMUNQUE VADA GRAZIE RAGAZZI.
Se potessi piangerei. Qualcuno lo fa senza ritegno e senza vergogna. Una corrente ci attraversa tutti. Tutti pronti. Impazienti, ma stranamente tranquilli.

FINALE
Passaggio filtrante di Emerson a cercare un corridoio che liberi Totti, scattato nel frattempo in avanti. Montero alza il braccio a invocare il fuori gioco ma l’arbitro spagnolo non lo caca proprio e lo stronzo si becca pure un concerto di fischi ad ultrasuoni. El Bimbo de Oro vede Batigol libero sulla destra, cross millimetrico e bomba alle spalle di Van der Sar.
Un boato, un urlo unico, un orgasmo collettivo. E’ felicità allo stato puro. E’ tutte le gioie represse che ci siamo dovuti ringoiare che evadono insieme. E’ Marina che singhiozza. E’ tutto lo stadio che singhiozza.
Palla al centro e si ricomincia. Mancano 20 minuti. E si comincia ad aver paura. Un deja vu collettivo ci fa da monito, e questo goal di vantaggio, così prezioso, ci sembra un po’ fragile.
Mancano 10 minuti. Davids ruba palla a Zago che se la lega al dito e lo segue per vendicarsi. Passa a Inzaghi che (“culo de piombo”) cade, secondo lui perché Samuel l’ha spinto, e si guadagna una punizione dai 30 metri.
Tira Pierpiero. La palla supera la barriera sulla destra, raccoglie superPippa Inzaghi marcato stretto da Zago, entra in aerea e… ricade. Fischio. Rigore.
Silenzio.
Se fosse scappato uno starnuto ad un qualsiasi spettatore si sarebbe sentito per tutto lo stadio.
Palla sugli undici metri. Inzaghi e Delpiero discutono. Batte Inzaghi. Fischio. Marina non guarda. Tiro. Traversa e Zago che si precipita a spazzare via.
UN URLO LIBERATORIO. E’ l’apoteosi. Si balla. Si piange. Si ride. Si canta.
Mancano 5 minuti più il recupero.
Tommasi ruba palla a Zidane, applausi per lui. Due minuti di seguito. Emerson detta i tempi, passa a Totti, è chiuso. Retropassaggio a Tommasi. Tiro. Goal. Damiano Tommasi goal.
“Ma che sete venu, ma che sete venu, ma che sete venuti a fa. Oh ooh ooh oh ohoh  ma che sete venu, ma che sete venu, ma che sete venuti a fa. Oh ooh ooh oh ohoh ”.
Francesco tira su la Coppa, la bacia e la ritira su.
Grazieadio io c’ero.
Devo andare. Mi giro verso Marina, le faccio una carezza e prendo dalla sua tasca il mio biglietto.
“Sei pronto Antonio?” la Voce. Me l’aspettavo
“Si sono pronto. Andiamo e grazie”.
Me ne vado mentre la mia Roma fa il giro di campo con la Coppa. Marina saltella insieme agli altri. Mette le mani in tasca. Tira fuori il biglietto. Cerca l’altro. Guarda su e sorride.

FINE

A Umberto (1970-1994)



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