Tratto da "Forza Roma, daje Lupi"
di Marco Impiglia

Nel triennio che va dal ‘74 al ‘76 la violenza negli stadi di calcio italiani assunse un carattere nuovo: si fece endemica, sistematica, organizzata. La gente cominciò ad aver paura di quel che accadeva all’Olimpico. Soprattutto i bambini e le donne preferivano restare a casa. A sentire gli esperti, si trattava di pochi teppisti, più o meno politicamente orientati. Almeno all’Olimpico, la violenza appariva ben circoscritta. Gli incidenti avvenivano solitamente in Curva Sud, dove si attestavano quelle decine di “gruppettari” che sventolavano drappi, urlavano da ossessi, lanciavano petardi e mortaretti, avventandosi contro le recinzioni, cercando di scavalcarle e superandole anche, riuscendo attraverso l’amore per la Roma a procurare alla stessa multe di milioni e milioni e squalifiche del campo. Poi c’erano quei 6-7 gruppi ultrà definiti genericamente dalla stampa: “Il commando”. Erano loro l’anima del tifo ed inventavano quei cori di incitamento ai giocatori che divertivano per l’ironica allegria. L’arrivo nella stagione ‘74-’75 di Prati, il vero bomber che mancava dai tempi di Manfredini, stimolò i ragazzi della Curva. Nacque il Piero-gol!, il la la la la la.... Pierino (in precedenza destinato a Spadoni) e la canzone riferita a Chinaglia, sulle note di “Faccetta nera”: <<O brutto gobbo / scava la fossa / sarai sommerso dalla furia giallorossa / quando saremo vicino a te / noi ti daremo un altro duce un altro re: Piero gol!>>.
Anche se i giovanissimi che assiepavano la curva vi avevano portato entusiasmo e scanzonata allegria, la Domenica veniva vissuta nel timore di incidenti. Qualche volta andava bene, qualche altra finiva tra lacrimogeni e sampietrini (perchè allora a nessuno gliene fregava un c****? Semplice! Non giravano tanti soldi come ora! n.d.L.). Nel gennaio ‘76 la F.I.G.C. indisse a Roma il primo vertice nazionale sulla violenza calcistica. Gilberto Viti, responsabile del settore organizzativo della A.S. Roma, così si espresse sulla situazione dell’Olimpico: “I danni più rilevanti agli impianti e le manifestazioni di violenza si hanno soprattutto prima della gara, nell’attesa che per alcune migliaia di giovani è lunga e inizia a mezzogiorno. La ingannano distruggendo i servizi igienici, molestando gli spettatori che arrivano, abbandonandosi ad atti di violenza. Ci sono venti, trenta agitatori, poi una moltitudine di ragazzi di dodici, tredici anni, che si lasciano trascinare. Gli incidenti avvengono sempre nella Curva Sud, che è presa d’assalto, appena si aprono i cancelli, da questi ragazzi che già alle nove del mattino attraversano il centro con bandiere e campanacci”.
 In quell’occasione Renato Faitella, commissario del Centro di Coordinamento, propose un tunnel per difendere i giocatori al momento dell’entrata in campo dal fitto lancio di bottigliette e agrumi dalla Sud; tunnel mobile realizzato da lì a poco. Da qualche anno funzionava un servizio d’ordine allo stadio, il primo d’Italia. Il servizio d’ordine arrivò a sequestrare un vero e proprio arsenale di guerra, tra pistole lanciarazzi, scacciacani, chiavi inglesi, spranghe, catene, coltelli, bulloni e bilie d’acciaio.
Sempre dalla stagione ‘73-’74 Faitella, d’accordo con Di Vizio e Camiglieri, responsabili dei Lazio Club, aveva diviso le curve del derby: la Nord alla Lazio e la Sud alla Roma (è bene ricordare che i tifosi più accesi della Lazio nelle partite in casa stavano in Curva Sud, dalla quale sono stati pertanto sloggiati, prima ancora che dalle decisioni dei club, dagli stessi tifosi della Roma, n.d.L.); questo per evitare disordini e facilitare il compito alla polizia. Durante il 1976 la degenerazione di alcune frange del tifo fu chiara ed evidente. La guerriglia urbana, con scontri tra celerini e giovani tifosi, al termine di un Roma/Juve (0-1) in gennaio fu la prima di una lunga serie (in realtà quegli scontri furono provocati da una insensata reazione della Polizia ad un innocuo lancio di agrumi, cui risposero con i lacrimogeni. Leggi al riguardo le cronache dei giornali dell’epoca, n.d.L.).

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Lo Stadio Olimpico, fino agli anni ‘60 quasi un recinto sacro nel lindore dei suoi marmi, rifletteva la situazione in atto, imbrattato da strati di vernice e scritte sovrapposte.
Subito dopo la loro invenzione, le bombolette spray erano servite a scarabocchiare “Alè Roma” o “Forza Lupi”. Frasi innocenti e rassicuranti. Ma ora il tifoso comune si impauriva, a vedere i cancelli coperti da simboli di morte che testimoniavano quanto l’ultrà si fosse incattivito, e come stesse abbandonando, anche ideologicamente, un atteggiamento normale, da tifoso caldo, per raggiungere i lidi della violenza pura. Scorrendo con gli occhi i tanti graffiti e le misteriose sigle, il tifoso comune aveva il sentore di una disputa, di una battaglia murale che poteva divenire realtà in ogni momento, come nel “dies irae” del derby, in cui le bande avversarie, cercandosi con odio, arrivavano allo scontro fisico. Chiamati in causa dai giornalisti, i gruppi di ultrà fornivano risposte vaghe: ”Noi ‘ste cose nun le famo, nun c’entramo gente, so’ li laziali”. Un ragazzo del gruppo dei Wolves espresse la ragione ultima di tutto: “Lo scrivere non serve in realtà a nessuno. Sporca e basta. Ma è lo stesso importante, perché crea ai delinquenti la possibilità quasi innocua di sfogarsi. Altrimenti cosa farebbero?”.
* * *
 Così, mentre da più parti si alzavano voci per difendere il “giocattolo calcio” dal teppismo degli ultras (oggi si potrebbe dire l’inverso: difendere il “giocattolo ultras” dal teppismo del calcio!, n.d.L.), e confusamente si cercavano soluzioni al problema (cancellata di ferro al posto dei separatori in cristallo tra i vari settori dello stadio, telespie per individuare i facinorosi, interdizione domenicale ecc.), qualcuno capì che con i ragazzi delle curve si poteva dialogare, che era meglio ascoltare le loro motivazioni, comprenderli e aiutare, piuttosto che bollare ogni minorenne con un marchio d’infamia immeritato. Esisteva un terreno d’incontro tra la Roma e i ragazzi delle curve: il miglioramento dell’efficacia del tifo. Gli esponenti del tifo giovanile sentivano che il frazionamento, il brulicare di tanti piccoli e poco organizzati gruppetti, non contribuiva alla causa romanista. Il sovrapporsi dei differenti cori creava confusione, ognuno pensava a se stesso e mancava una strategia comune. A Torino,i tifosi granata si erano riuniti sotto un’unica bandiera, quella degli Ultras, superando lo scoglio delle ideologie politiche. Perché non fare lo stesso a Roma? L’iniziativa per la riunificazione dei gruppi di curva non integrati nella tifoseria dei Roma Club partì nell’autunno del ‘76 dalla società giallorossa, interessata a controllare quanto più possibile lo zoccolo duro del tifo giovanile. Sentiamo in proposito la testimonianza di Fausto Josa: “Il Commando Ultrà non è nato per caso, ed è stato portato  avanti con saggezza e furbizia. Molti vecchi ultrà sono convinti che tutto sia scaturito spontaneo. Invece l’idea, nata da Anzalone e Faitella, è stata elaborata a tavolino. Parlo dell’idea di controllare e aggregare i vari gruppi al Centro di Coordinamento tramite la mia persona (è da tener presente al riguardo che il libro da cui è stato estratto questo racconto è filo Roma Club: è certo che i Roma Club potevano vedere con piacere ed auspicare l’unione dei gruppi sotto un’unica sigla, ma contrariamente a quanto detto da Josa, credo semplicemente che l’idea, dopo essere partita dai responsabili dei gruppi, venne in parte cavalcata da una parte da persone che, pur essendo nei Roma Club, erano comunque “esposte” ed attive a livello di tifo: il Commando, come si può ben leggere in alcune interviste dell’epoca, non vedeva di buon occhio i Roma Club, n.d.L.). Io all’epoca ero già presidente del R.C. Esquilino. Allo stadio mi piaceva il colore, vivere in trincea. Portavo i tamburi, col mio club, prima ancora che si moltiplicassero sugli spalti. Quando Faitella mi condusse a via Beethoven all’Eur, nello studio di Anzalone, e gli esposi i miei progetti, il presidente, con la sua erre moscia, rivolgendosi a Faitella disse: “Ecco, lo vedi? Adesso cominciamo piano piano...Josa, che vuoi?”. Feci le mie richieste: permesso di entrare prima, magazzino per i tamburi, striscioni all’interno dello stadio, autorizzazioni. striscioni all’interno dello stadio, autorizzazioni. Non mi diceva mai di no, ma cercava di equilibrare le proposte. Le prime riunioni con gli ultrà le facemmo alla vecchia sede dell’A.I.R.C. in viale Ostiense. Tutto filò liscio. E non poteva essere altrimenti perché a capo dei gruppi c’erano ragazzi eccezionali come Antonio Bongi (Boys, n.d.L.), Roberto Rulli (Fedayn, n.d.L.), Stefano Malfatti, Gianni Massarelli, Angelo Melchiorri, Fabio Alese, Sergio Arcangeli, Marco Angelini, Massimo Bonerba. Studenti, gente impegnata nel sociale e già molto matura per la giovane età”.
    Aderirono alla proposta i seguenti gruppi: Boys, Fedayn, Fossa dei Lupi, Pantere Giallorosse.
Si doveva scegliere il nome del nuovo raggruppamento. Ognuno dei capi fece la sua proposta. Dopo una consultazione, venne scelto “Commando Ultrà Curva Sud”. Era il nome proposto da Bongi: “Mi venne in mente scorrendo un articolo sul Corriere della Sera, che parlava di scontri di palestinesi; lessi commando di ultrà, mi piacque il nome e lo sottoposi alla votazione degli altri responsabili dei gruppi: passò a maggioranza”. Dopo il nome, il simbolo: le lettere U e R rosse su sfondo bianco, spaccate da un fulmine. Un simbolo elettrico che riportava alla mente la rapidità e la decisione dell’azione, tutto sommato meno lugubre di quello degli Ultras del Torino, col loro teschio e le tibie incrociate. Anche in questo, si vedeva un volontà di andare oltre nel tifo, ma senza spingerlo nel baratro della violenza teppistica.
Il Centro di Coordinamento Roma Club finanziò i tamburi e il primo striscione degli ultrà.
L’esordio del Commando avvenne il 9 gennaio 1977.
Stralciamo dalla storia del Cucs apparsa a puntate su Giallorossi nel 1983:
“... fu qualcosa di stupendo, ci fecero entrare prima dell’apertura dei cancelli, eravamo soli in quello stadio così grande per noi, ci sentivamo i veri protagonisti della giornata. Eravamo tutti lì, emozionati dietro il nostro, finalmente nostro e unico, striscione (42 m.), bombardati dai flash delle macchine fotografiche. Poi la partita, quel sonante 3-0 alla Sampdoria, tanto amore, molta passione e un tifo tutto sommato soddisfacente, se si pensa che era solo l’inizio, forse un solo errore, quello di cantare anche prima della partita e ritrovarsi per il secondo tempo senza voce, un errore che cercammo di eliminare di volta in volta (...) Da parte del resto della tifoseria romanista non ci furono grandi reazioni, anche perché la nostra postazione non permetteva di vedere il nuovo striscione. Naturalmente serpeggiava una grande curiosità, si cercava di scoprire chi fossero questi ragazzi che volevano far nascere un gruppo ultrà che sarebbe diventato negli anni a seguire il più forte d’Italia (...). L’anno 1977 fu soprattutto un anno di ambientamento, dovevamo ancora affiatarci e, cosa forse ancora più importante, ci conoscevamo poco. Avevamo solo otto tamburi e due bandieroni, tra noi vi era già molto entusiasmo e tanta voglia di fare meglio. Nel 1978 iniziarono i primi problemi finanziari, avevamo raggiunto venti tamburi, molte bandiere erano state costruite, ogni Domenica accendevamo un gran numero di fiaccole e fumogeni, tutte cose che comportavano una notevole spesa. Decidemmo oltre ad autofinanziarci, di sponsorizzare la nostra immagine stampando adesivi e magliette che ogni Domenica vendevamo allo stadio (...). Tutto questo però non bastava, eravamo quasi sempre in rosso, risultava necessario allora iniziare con il tesseramento, che ci aiutò oltre che dal punto di vista economico anche a sapere su quante e quali persone poter contare”.
     In quelle prime domeniche del ‘77 i ragazzi del Commando presero saldamente la loro posizione in Curva. Ricorda Antonio Bongi: “Il pubblico all’inizio arrivava e diceva: Qua, ragazzi, mi ci devo mettere io, è il posto mio... E noi rispondevamo: Guarda, se ti vuoi mettere qui, devi tifare in piedi per tutta la partita, se non vai da un’altra parte. Noi occupavamo un perimetro di una settantina di metri. Quasi tutti accettarono con piacere di essere ultrà: dal bambino di sei anni con la sciarpa fino al settantenne”(occorre tenere presente che in quegli anni gran parte del pubblico della Sud seguiva la partita seduto..... in realtà, i “dialoghi” con le persone che occupavano i posti in esame non erano così concilianti e spesso sfociavano in qualche pizza in faccia! Presa la pizza, ovviamente, il soggetto riottoso si sceglieva un altro posto, n.d.L.).
Il Cucs dimostrò subito che urla, contorcimenti e fragori, presi a se stessi, non rendevano un gran che. Mentre il rullo dei tamburi orchestrato, lo sventolare bandiere, l’incitamento ritmato, le sciarpe giallorosse ondeggianti, il canto d’incoraggiamento all’unisono riuscivano ad incanalare la passione di tutta la Curva e a dare un sostegno più efficace alla squadra. Sergio Bruno era l’alfiere incaricato della posa dello striscione; i tamburi erano guidati da Malfatti e Massarelli; Trenta e Melchiorri conducevano gli incitamenti e i canti; Bongi e Angelini fungevano da coordinatori degli sbandieratori; e ognuno di loro era aiutato nel suo compito da volontari che si spostavano durante il corso della partita attraverso tutta la Curva, per calmare, ordinare, aumentare o diminuire l’intensità del tifo con sapienti registri. Allo scopo di unire completamente l tifoseria degli ultras, Viti e alcuni esponenti del Centro Coordinamento Roma Club (Faitella, Marzoni e Sbaffo) crearono il Centro Giovanile Giallorosso (ed infatti questa appendice si legge sul primo striscione del Commando Ultra Curva Sud, n.d.L.). Esso comprendeva, oltre al Commando Ultrà, anche i Guerriglieri e i Panthers.
I Guerriglieri della Sud, guidati da Massimo Bonerba, studente in giurisprudenza e tifoso romanista a nove anni in odio al portinaio laziale che gli stava antipatico, erano il gruppo con più esperienza sulle spalle, essendo il loro striscione comparso già nel ‘67. I Panthers, guidati da “Italo”, erano l’unico gruppo di ultras della Nord. I nomi riflettevano le peculiarità del gruppo stesso. A volte solo in apparenza avevano connotazioni politiche. Il titolo di Panthers, ad esempio, stimolava la fantasia dei teen agers che lo componevano. I Fedayn scelsero di chiamarsi così per un motivo di fedeltà estrema: “Noi del Quadraro già nel ‘73 ogni Domenica seguivamo la Roma. Alle dieci eravamo davanti allo stadio. La gente che ci vedeva per la strada, in quel periodo che la nostra squadra non andava molto bene, ci dava dei kamikaze e diceva: Siete peggio dei Fedayn! Il nome ci piacque e lo facemmo nostro” (da un’intervista di Roberto Rulli a “Giallorossi”, n.d.L.).
Tra i Fedayn c’erano militanti di Lotta Continua e Autonomia Operaia, riuniti sul muretto 17, plancia di controllo del biondo Rulli. Nei loro adesivi il nesso tra politica e tifo era evidente.
I rapporti tra il Centro di Coordinamento Roma Club e il Centro Giovanile Giallorosso contenplavano un certo aiuto logistico ma anche la massima autonomia per gli ultrà. Questi, sentendosi un gradino più in alto per passione rispetto ai sostenitori dei club, li tacciavano di freddezza. Gli ultrà muovevano all’organizzazione dei Roma Club accuse di “gerarchismo” e di scarsa attenzione al sociale; mentre la paura di fondo era quella di essere in qualche modo “strumentalizzati”. Se, da una parte, si ponevano come obiettivo quello di essere riconosciuti dall’A.I.R.C. sullo stesso piano dei club ufficiali, dall’altro rifiutavano qualsiasi ingabbiamento in strutture formali. I problemi da risolvere per il CUCS erano due: le infiltrazioni di agitatori politici e il teppismo mordi e fuggi delle frange violente. Entrambi furono combattuti e mai pienamente risolti. Ai militanti di destra e di sinistra che volevano entrare, i capi del Commando facevano un discorso molto chiaro (“Guardate, qui si viene per tifare Roma”), che in genere veniva accettato e rispettato.
Tuttavia, l’abitudine dei giovani tifosi ad adottare simbologie contraddittorie (il gesto della P38 degli autonomi insieme al saluto romano, canzoni partigiane e fasciste) ingenerava e manteneva un terreno di equivocità nel quale allignavano facilmente gli agitatori di mestiere. Lo stesso discorso valeva per i teppisti comuni che usavano le trasferte per compiere atti criminosi (furti, rapine e spacci di droga). Per la partita inaugurale del campionato ‘77-’78, Josa e i soci del R.C. Esquilino (Vincenzo Pandolfi, Maurizio Pettinari, Massimo Cola, Gianni Crocetta, Roberto Cucculelli, Elio Nunzi) percorsero le vie della città con autocarri e “botticelle” addobbati, mettendo ben in vista cartelli che condannavano ogni tipo di manifestazioni teppistiche. La settimana successiva, per la trasferta di Perugia, le Ferrovie concedevano, dopo quattro anni di interdizione, l’organizzazione di un treno speciale giallorosso. il C.C.R.C. si occupò della cosa e il treno partì da Roma con 350 tifosi e alcuni vagoni vuoti. Al ritorno, alla stazione di Perugia, il treno speciale venne preso d’assalto e riempito da circa 600 passeggeri, senza che nessun controllo fosse possibile. A Terni scesero i carabinieri di servizio. A Settebagni, sconosciuti con calzamaglia e passamontagna sul viso diedero inizio ad atti criminosi, che portarono al ferimento di alcuni addetti del personale di servizio e alla distruzione delle suppellettili del convoglio.
Era la risposta dei teppisti ai buoni propositi della parte sana -  la stragrande maggioranza - della tifoseria romanista. Si auspicò una pronta inchiesta per smascherare i colpevoli (“dei quali si conoscono nomi e indirizzi”, disse Nilo Josa). Anzalone tuonò contro le “frange violente”, contro “certi personaggi” che per cinque anni si era cercato di redimere e recuperare. Certamente non era facile, nel campo della tifoseria ultrà, distinguere l’erba infestante dal grano. E forse l’A.S. Roma qualche addebito, per lo meno una certa inazione e ritrosia alla denuncia in sede giudiziaria, ce l’aveva.
 La stagione ‘77-’78 segnò l’inizio di un decennio in cui la Curva Sud, unita ed esaltata dalla crescita della squadra, diede il meglio di sé. Il sostegno si espresse in spettacoli e coreografie che per certi versi ripresero, nella tradizione romana, le feste barocche e popolari del ‘600 e ‘700. Erano veramente secoli che sotto il cielo capitolino non si vedevano fumi, colori e fantasie come quelli che percorsero l’Olimpico durante la presidenza Viola. Tutto ciò fu possibile (anche, n.d.L.) grazie all’azione appassionata di Fausto Josa. Il giovane e dinamico presidente del R.C. Esquilino, tesserato n. 1 del CUCS e membro del direttivo dell’Associazione Italiana Roma Club, prese come una chioccia sotto le sue cure i ragazzi ultrà. Con lui il Commando si diede una struttura organizzativa, con tanto di “direttore del coro”, “capotamburo”, cassiere, responsabile degli under 14 e addetto alle pubbliche relazioni. la Roma mise a disposizione all’interno dello stadio un magazzino per i materiali (tamburi, striscioni, aste e bandiere, fumogeni). Josa, commerciante all’ingrosso di stoffe, cominciò ad organizzare le coreografie domenicali insieme ai ragazzi nei suoi magazzini, avendo in Stefano Scarciofolo un formidabile aiuto e direttore dei lavori. Nel primo periodo di rodaggio, gli sforzi coreografici si concentrarono sulle stracittadine, con il concorso finanziario e logistico di alcuni club. Già nel derby del 20.11.1977 grappoli di palloncini con lunghe strisce di stoffa bicolore apparvero nel fossato dell’Olimpico. Un gol di Bruno Conti bruciò i laziali (l'autore si confonde: il gol di Bruno Conti risale al derby del 27.03.1977).
Roma/Lazio 0-0
20 novembre 1977
Lazio/Roma 1-1
19 marzo 1978
Per il derby di ritorno, Josa e i suoi ragazzi prepararono qualcosa di eccezionale: “era il 17 marzo 1978, il giorno successivo al rapimento di Aldo Moro. Mancavano due giorni al derby. Avevamo progettato una scritta luminosa Forza Roma costruita con 400 fumogeni gialli e rossi accesi contemporaneamente e applicati su lettere di legno, la prima mai sperimentata in Italia. C’era però un problema: l’unico in grado di preparare la scritta era un esperto pirotecnico di fede laziale. Con Francesco Storace ed altri ragazzi del R.C.Laterano andammo a trovarlo. Uno di noi, vestito con abito talare, doveva far la parte di un parroco di Castiglioncello per la festa del paese di Marazofra. Anagrammando la parola si otteneva Forza Roma. Lui non sospettò nulla e ci cascò in pieno. Lo prelevammo con un furgone scortato dalla polizia municipale (tutti romanisti) per passare i vari blocchi stradali che servivano a rintracciare i brigatisti rossi. All’Olimpico nascondemmo di Sabato il materiale in un magazzino del C.O.N.I., con l’aiuto di un funzionario romanista. La Domenica mattina montammo la scritta. L’effetto fu magnifico. La curva laziale rimase di sasso, in silenzio. Capì per la prima volta che differenza passava tra noi e loro in fatto di coreografia del tifo”. In effetti, i supporters laziali erano rimasti ancorati a un tifo “vecchio” rispetto a quello più moderno dei romanisti. Qualche soddisfazione, però, se la prendevano pure loro. Nel derby del 18.03.1979 un grosso striscione “Ve mannamo in B”, issato a coprire il tabellone luminoso, mandò in bestia la Sud; e un colpo degno dell’ironia romanesca più pura fu l’ingresso in campo, dalla Nord, di dieci galline vestite di giallorosso (una era deceduta il giorno prima) subito dopo il gol vincente all’ultimo minuto della Lazio. Tra Eagles’ Supporters e il Commando non c’era comunque partita. Oltre ai fumoni, alla parata di sciarpe e bandiere le più diverse, al rullio dei tamburi  e ai cori orchestrati coi megafoni dai ragazzi che volgevano le spalle al campo, gli  ultrà giallorossi esibivano fantasie coreografiche sempre nuove a base di carta e stoffa. Fantasie che stupivano gradevolmente il pubblico e bene esprimevano l’ironia e la voglia di far festa dell’animo romano. Rispetto al mutismo degli spalti anni ‘60, interrotto da mormorii e boati relativi all’andamento delle azioni,ora il sostegno risultava più caloroso e continuo. Nelle fasi morte di gioco lo stadio veniva percorso da un brivido sotterraneo quando, dalla Curva in movimento, si levavano sotto il cielo basso e grigio e nel freddo pungente, cori di matrice anglosassone (que serà serà/for ever we’ll be we’ll be) o il suggestivo inno della Marsigliese (canteremo fino alla morte, innalzando i nostri color...). Nella Sud trasformata in un meccanismo dove tutto si muoveva in perfetta sincronia di piani e di tempi, la figura di Dante, il tifoso-macchietta capopopolo, non aveva più ragione di esistere.

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Con Dante svanirono altre usanze, quale ad esempio il trepestio dei piedi all’unisono, che s’udiva partire per azione spontanea almeno un paio di volte a partita. Il “terremoto” finì non per un ordine dall’alto dei cieli, ma per un umano sentimento di stanchezza: battere  i piedi significava disperdere l’energia, che doveva essere concentrata nei cori.
Prima di vivere la sua stagione più felice , il CUCS dovette superare una prova terribile: il delitto Paparelli. Il giorno più nero in 70 anni di tifo giallorosso reca la data del 28 ottobre 1979, settima del girone di andata: Roma-Lazio. Riprendiamo da Nobiltà Ultras, il libro di Donato Martucci che fa la storia della tifoseria biancazzurra: “(...) I bollenti spiriti, animati da una vigilia dominata dalle vivaci polemiche sollevate dai calciatori, s’infiammano una volta che i gruppi organizzati varcano i cancelli dell’Olimpico: laziali in Nord, romanisti in Sud, Eagles’ Supporters e Viking da una parte, CUCS dall’altra. Mancano alcune ore dal fischio d’apertura dell’arbitro, quando i giocatori entrano in campo per assaggiare le condizioni del terreno. In Nord i tifosi laziali espongono striscioni offensivi: “Scusa porco se ti chiamo romanista” e “Rocca bavoso, i morti non resuscitano”. Il giallorosso Rocca, rientrato in attività dopo un serio infortunio che avrebbe potuto compromettergli la carriere, corre sconvolto verso la Sud imprecando verso il suo pubblico per il duro contenuto della frase indirizzatagli. Il suo ritorno in lacrime negli spogliatoi fa probabilmente scattare una scintilla, e dalla Sud cominciano a piovere invettive contro i cugini. In Nord sale la tensione (...) Dalla Sud una scia nera sibilante parte nei pressi dello striscione “Club Somalia” verso la Curva Nord, ma una traiettoria cambiata dal vento fa slittare il mortaio sopra il tabellone. Poi un altro “fischio”. Parabola diversa. va fuori lo stesso. Infine un terzo, sempre un razzo antigrandine. Questa volta con traiettoria tesa, senza parabola. Fa un percorso di 150, 160 metri nell’aria (...) va ad infilarsi proprio nella testa di un tifoso della Curva Nord (...) Quell’uomo si chiamava Vincenzo Paparelli, 33 anni, di professione meccanico, abitante a Mazzalupo, vicino Casalotti. Era venuto allo stadio in compagnia della moglie Wanda ma un razzo metallico-luminoso tipo imbarcazioni di porto, gli stronca la vita (...) D’Elia, l’arbitro designato, nell’intento di non compromettere ulteriormente l’ordine pubblico decide che le squadre devono ugualmente scendere in campo, mentre in protesta alla decisione presa la Nord si spopola e i Carabinieri, in assetto antisommossa, si schierano a bordo campo lanciando lacromogeni (...) Al fischio finale le violenze si riversano per le vie della città: il centro è preso d’assalto dai reduci dello stadio, e in Via del Corso iniziano copiosi scontri con tanto di sassi, sprangate, auto incendiate, catene e bastoni. Il bollettino di guerriglia urbana parla di 20 feriti, 10 fermi, e di un gruppetto che ha tentato di assaltare la sede della Roma al Circo Massimo piantonata da agenti di polizia che hanno respinto gli attacchi. “Ad incitare chi sparò addosso a Paparelli - scrive il Corriere dello Sport riportando le dichiarazioni di acluni dei tifosi presenti in Sud - furono in molti. A pochi metri c’era anche un servizio d’ordine con tanto di fascette di riconoscimento legate al braccio, ma nessuno disse niente, né quando quel tizio montò il bazooka, né quando sparò. Anzi, tutti l’applaudirono, e tutti hanno visto quel razzo finire tra la gente della Nord. Qualcuno urlava ai laziali “morirete”, invece altri alzavano bare di cartone, poi quando si seppe che una persona era morta, tutti gridarono a quel ragazzo “assassino, assassino” e lui è scappato piangendo”.
Presto gli agenti in borghese infiltrati nella Sud individuarono l’autore del lancio G. F., detto “Tzigano”, abitante in P.za Vittorio Emanuele, e i suoi due amici compartecipanti al criminoso gesto: E.M. e M.A. Tzigano e M.A. lasciarono le rispettive dimore, latitanti. In seguito vennero arrestati. Il governo ordinò una serie di misure per stroncare la violenza negli stadi. I gruppi ultrà furono indicati come i principali responsabili e ne subirono le conseguenze.
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UN TESTIMONIANZA DELLA SUD ANNI '80:
“Cominciai ad andare nella Sud verso i 15 anni. Quelli del Commando li vedevo strani, ragazzi molto diversi dagli amici della Balduina che frequentavo. Gente esaltata, che non capivo. Li conobbi meglio nell’85, per una trasferta ad Ascoli. Presi contatto col Centro Coordinamento e andai col pullmann organizzato da Coca Cola, un personaggio che passava in curva a fare la colletta, lui col megafono e gli altri con le borse; cosa che poi ho fatto anch’io. Qualche mese dopo andai con mia sorella a Monaco di Baviera e a Verona per la partita di campionato: un’intera settimana. Conobbi altri due del gruppo Trionfale: Leo, un tipo scafato col giubbotto nero, e un altro con la ragazza, più tranquillo. Li trovai simpatici. Feci la tessera CUCS. Pian piano entrai nel mucchio di quelli in piedi. Mi accorsi che il gruppo dirigente seguiva la partita spalle alla porta. Cambiai ottica, cominciai a vedere i celerini non più come difensori del bene. Quando passavano i carabinieri si faceva la marcetta di Stanlio e Ollio (po-pon, po-pon). Durante i lunghi viaggi si raccontavano le avventure. C’era una mitologia ultrà. Episodi che ho visto sono poi diventate storie degne di Omero. I miti ultrà sono il corrispettivo delle storie dei bulli dell’800. Un paio di volte sono venuti dei giornalisti di quotidiani politici romani con noi sul pullman. Il giornalista l’etichettavamo come uno di cui non fidarsi, che parla e giudica su cose che non conosce: e spesso esagera per vendere. Quando si andava in trasferta scattava la molla psicologica dell’assetto di battaglia. Gli ultrà nemici erano quelli di Inter, Milan, Juve, Toro, Samp, Atalanta, Napoli, Fiorentina.
Il cameratismo ti porta ad accettare tante cose: repulisti nei bar e scippi in metrò. Se un gruppo di ragazzi faceva razzia in un bar e si gettava in mezzo ai romanisti, tu li coprivi. Gli organizzatori dei pullman cercavano di allontanare i tipi che rubacchiavano negli autogrill e facevano cazzate. Questo perchè poi il pullman veniva fermato e si tornava con tre ore di ritardo. I casinisti erano soprattutto quelli che andavano coi treni, cani sciolti. Nei pullman invece dovevi lasciare gli estremi del documento. La polizia era più feroce dei carruba: arrivavano e manganellavano tutti. Nel marzo ‘88 a Milano dopo un Inter/Roma, la polizia attaccò il nostro torpedone all’uscita dello stadio senza ragione alcuna, in maniera selvaggia. Ci portarono in commissariato. Ragazze e minorenni furono rilasciati subito, ai più grandi presero le foto e le impronte digitali. Passai cinque giorni in carcere. Finii con 30 ad Opera, e 35 furono dirottati a S. Vittore. Poi mi raccontarono che alcuni compagni a S. Vittore ebbero contatti con Vallanzasca. Il bel Renè li prese in simpatia, gli fece dei favori. Ma credo che anche questa storia faccia parte della mitologia ultrà. Quel che mi appagava era il bisogno di un ambiente diverso da quello familiare. Andavo in giro con giubbetto jeans, la cintura grossa: occorreva dimostrare una certa durezza, mi mettevo il fazzoletto in bocca alle partite, per difendermi dai fumoni. Ero un ultrà tranquillo, ma ricordo che un giorno persi la testa, sfilai il cinturone e stavo già per menare un bambino laziale che aveva detto qualche parola di troppo, quando un compagno mi bloccò. Tra i miei amici ultrà si pescava di tutto. Ragazzi con la terza media (in genere i più violenti) e gente matura, integrata, che lavorava nei ministeri. C’era un 10% di disadattati, che subiva l’effetto tampone dei più calmi. Si verificavano furti e scippi dentro gli stadi (ricordo bene che quando si entrava dai cancelli della Sud, nella calca, era facile sentire una mano che ti toccava il collo per sentire se c’era la catenina d’oro, n.d.L.), forse anche prostituzione, ma non ad opera nostra. Circolavano le canne, ma non la droga pesante. La Curva era una zona franca. Per me essere ultrà era come un lavoro a tempo pieno: da mattina a sera. La Domenica molto presto andavo a messa ma non lo dicevo, perchè non era cosa da duri. Poi allo stadio. Quelli dell’A.I.R.C. erano visti come i tifosi falsi; noi eravamo i veri tifosi, i fondamentalisti. Gli striscioni si affermavano da soli, col placet del gruppo dirigente. Slogan, canzoni buffe (il valzer del qua qua) o slogan truculenti (10-100-1000 Paparelli!). I cori davano i brividi, erano estremamente appaganti. Una volta a Genova qualcuno si mise la sciarpa annodata a cravatta: a fine partita tutti l’avevano fatto. L'emulazione è fondamentale. Emozioni e fenomeni che poi ho ritrovato in studi di etologia. L’ultrà ama sentirsi parte di una tribù, di un’attività organizzata. E’ una nuova famiglia, ma più libera, di uguali. Rifarei l’ultrà, perchè soddisfaceva le mie esigenze. E’ una banda giovanile, e ci stai finché sei giovane”.
 

APPROFONDIMENTO DELLA STORIA DELLA SUD (SEGUE)
Intorno alla metà degli anni ‘80, se da una parte gli ultrà andavano integrandosi nella realtà in evoluzione del tifo mediato dalle radio e tv private (gli appuntamenti del Giovedì e Venerdì con Radio Stand By e GBR; la trasmissione “Là dove batte il cuore” del Mercoledì su Teleroma 56,  curata da Enrico Minozzi), dall’altra si intravedevano già i primi segni di nervosismo all’interno della “vecchia guardia”. Nei pullman poche facce nuove, sulle gradinate degli stadi d’Italia sempre gli stessi che si dimostravano assidui accompagnatori delle squadre. Qualcuno dei fondatori lasciava (Bongi, dopo un record di oltre 200 trasferte).
I Boys già da alcuni anni erano guidati da “Marione”, nome di battaglia di Mario Corsi: sulla tessera dei Boys era disegnato uno scalpo laziale. Ma altri restarono lla guida, in primis Trenta e Malfatti. Alla fine dell’85 Viola venne coinvolto nello “scandalo Vautrot”; gli ultrà manifestarono il loro appoggio al presidente, organizzando un sit-in di protesta sotto la sede della F.I.G.C. alla notizia della squalifica e tappezzando di vessilli via Porro, la strada ove abitava il senatore.
 Nel giugno ‘87 l’acquisto di Manfredonia e la cessione di Ancelotti scatenava una dura contestazione a Viola, accusato di svendere una delle bandiere della squadra e di sostituirla con un giocatore anti-romanista. A Trigoria, la presentazione dei quadri tecnici della Roma ‘87-’88 avvenne tra fischi e insulti. Subito dopo il CUCS si spaccò in due: un gruppo, capeggiato da Malfatti e comprendente ottimi organizzatori come Elio Nunzi, Pietro Uinni, Marco Bartolini, si espresse a favore della decisione del presidente, allineandosi alla posizione dell’Associazione Italiana Roma Club; un altro, guidato dal carismatico Trenta e comprendente quasi per intero il gruppo dirigente (tra gli altri: Venturelli, Scarciofolo, Roberto Molinari, Gianluigi Frea, Franco Nicastro, Roberto Cucculelli, Massimo Dolce, Luca Laganà), si schierò contro le direttive societarie.
Il gruppo di Malfatti prese la denominazione di Vecchio CUCS, quello di Trenta si chiamò CUCS-Gam. IL Gam cercò inutilmente di ottenere le scuse ufficiali da Manfredonia durante il ritiro di Vipiteno .... Il campionato cominciò con la visione manifesta della spaccatura avvenuta in Curva Sud: il Vecchio CUCS dal lato Monte Mario e il CUCS-Gam dal lato Tribuna Tevere si dividevano equamente lo spazio. Dopo un contestazione a base di canti (naufragata in una rissa con visita in questura [si parla di Roma/Genoa, n.d.r.] ), Trenta e compagni cambiarono strategia e inaugurarono uno “sciopero del tifo”, che lasciò nel silenzio metà Sud fino alle scuse ufficiali di Manfredonia, occorse nel Novembre 1987.  Rientrata la questione Manfredonia, i rapporti tra i due gruppi della Sud rimasero tesi. Antipatie personali e dissidi di carattere economico (la registrazione all’ufficio brevetti del marchio CUCS da parte del gruppo di Trenta) impedirono un reale riunificazione del Commando. Il Vecchio CUCS aveva dalla sua il vantaggio di rappresentare la linea filo-governativa, vicina all’Associazione Italiana Roma Club e all’A.S. Roma. Trovava spazi sulla rivista “La Roma” [quella ufficiale della Società, n.d.r.]. Molte nuove sezioni “estere”, specialmente nel centro-sud, vi aderivano. Il CUCS, aveva meno sezioni, ma disponeva dei marchi originali (la famosa sciarpa CUCS Roma) e di un buon rapporto con Viola. Anche il CUCS si garantì una tribuna sulla rivista di Francesco Campanella “Magica Roma”, cercando di mantenere aperto il dialogo con i Roma Club”.
Nella stagione ‘89-’90 Trenta trasportò il suo famoso grido di battaglia (“E allora datemi una RO!....MA!, ROMA!.... ROMA!”) sugli spalti del Flaminio, per sostenere Rudy Voeller negli attacchi dei “lupi” alla prta avversaria. Ugualmente fece Malfatti e il gruppo del Vecchio CUCS, che intanto acqusiva nuovi e valorosi elementi. A.P. ricorda: “Entrai nel gruppo di Malfatti nell’87. Da cinque anni frequentavo la curva Sud e Stefano era mio compagno di scuola. Stavo in una sezione di quartiere, Montesacro, edil gruppo principale ci aveva dato l’incarico di fare degli striscioni di protesta. In cartoleria compravano la carta con i soldi della cassa, ci fornivano la vernice, dicevano cosa scrivere. Portava via tempo (sono stato bocciato due volte) ma i pomeriggi filavano via bellissimi: dieci, dodici ragazzi. lo stereo su Lucio Battisti, la Tv accesa con i video dei concerti, ogni tanto qualcuno andava a prendere bevande, la pizza, e ci si alternava al lavoro. Ricordo uno striscione col cuore per un derby perso; un altro per un Roma-Milan in curva nord, essendo la Sud in ristrutturazione La Roma ci fece sequestrare tanti striscioni, perchè erano offensivi verso la società: testi inerenti ai soldi che i giocatori intascavano e non ripagavano. Noi ragazzi del (Vecchio n.d.L.) CUCS ci vedevamo tutti i giorni, giocavamo a pallone, facevamo le riunioni alla pizzeria Nuovo Mondo. Si programmavano le trasferte con i pullman o le macchine, a seconda dei partecipanti. Negli anni belli ogni sezione di quartiere organizzava un pullman, che faceva capo a quello del (Vecchio n.d.L.) CUCS. Ragazzi del Tufello, Talenti, Boccea, Trionfale ecc.; ragazzi di destra e di sinistra, tutti insieme, sotto lo striscione. Dopo la divisione, eravamo quattromila persone a far parte del Vecchio CUCS”.
    Con la scomparsa della Curva Sud nella sua originale veste olimpica di bianco travertino esposto al sole e alla pioggia, se ne andava davvero un pezzo di storia della tifoseria giallorossa.
La situazione tra i due gruppi rivali si mantenne delicata, con dispetti reciproci.
Il 4 giugno 1989 Antonio De Falchi, un ragazzo di Torre Maura con due sole passioni, il motorino e la “maggica”, venne accoltellato a morte davanti allo stadio S. Siro in un agguato prima  della sfida con l’Inter  (errore dell’autore: si trattava di Milan/Roma, e De Falchi non venne affatto accoltellato ma morì di infarto nel corso di un’aggressione degli ultrà del Milan, che non avevano coltelli, n.d.L.).
De Falchi era l’ultima vittima di una serie che cominciava a farsi pesante (Palmieri, Fonghessi, Filippini).
Il campionato ‘89-’90 al Flaminio vide la definitiva affermazione delle sciarpe alte sulla testa, oscillanti a mimare il movimento cullante delle onde del mare. Lo stile british, ordinato ed efficace, prendeva il posto dello stile torcida, più caotico e pirotecnico. Intanto, sulle anguste gradinate del Flaminio popolate da Union Jack e berretti alla Andy Capp, appariva un bandierone con un Voeller “angelo sterminatore” e s’innalzava  il coro “Vola, sotto la curva vola, la curva s’innamora, tedesco vola!”, mutuato dalla sigla di una trasmissione televisiva. Il ritorno all’Olipico (‘90-’91), coperto e con tutti i posti numerati e individualizzati dalla poltroncina di plastica, fu traumatico. La nuova versione dello stadio non favoriva il gesto collettivo, il culto della rudezza ultrà. Mi dice Vittorio Trenta: “Il rifacimento dell’Olimpico ha inciso negativamente sulla Curva. Prima col megafono riuscivi a far cantare la ventesima fila, dopo al massimo si arrivava alla dodicesima. Da llora è cambiata anche l’anima della Curva: ieri 12.00 persone, ma abbastanza omogenee, oggi 22.000, ma molto diverse per modalità di tifo. Ne consegue che 500 ultrà non riescono ad orchestrare una massa così”.
(SEGUE)
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