SINTESI DEL
GRUPPO DI RICERCA SULLA COMMERCIALIZZAZIONE
Progetto Ultrà
1990-2000. GLI ANNI DEL BUSINESS (DIRITTI TV; RISTRUTTURAZIONE STADI, COSTO BIGLIETTI.....)
Diritti
televisivi
Il crollo del monopolio
della televisione pubblica in Europa alla fine degli Anni Ottanta ha prodotto
una vera e propria rivoluzione che ha scosso sia il mercato televisivo
che quello calcistico favorendo una notevole lievitazione dei prezzi per
l’acquisto dei diritti televisivi delle partite di calcio. E se in Italia
Berlusconi è riuscito, verso la fine degli anni Ottanta, ad aggiudicarsi
i diritti di molte partite amichevoli, di campionati esteri e di alcune
partite di coppa senza però scalfire il monopolio RAI per quanto
riguardava il campionato e la Coppa Italia, all’estero, invece, il monopolio
delle tv statali veniva rapidamente spezzato da alcune tv private.
E’ il caso della
Germania, dove i primi accordi tra la Federazione nazionale e le tv private
per i diritti del campionato si firmano già nel 1988, o dell’Inghilterra
dove il magnate Murdoch, all’inizio degli Anni Novanta, riesce a soffiare
alla Bbc i diritti del campionato versando alla Federazione Calcio Inglese
un mare di dollari.
Contestualmente
le tv commerciali europee puntano ad introdurre nuovi tipi di tecnologie
già diffuse negli Stati Uniti: nascono così prima le varie
pay tv (tv a pagamento) che introducono la cultura del pagamento dei programmi
televisivi (per accedere alla Pay Tv bisogna acquistare un abbonamento
annuale e dotarsi, a proprie spese, di decodificatore e di parabola) e
poi, negli ultimi due anni, spesso all’interno della pay tv, la cosidetta
pay per view, da molti considerata la tv del futuro, che offre una serie
di canali tematici e consente all’utente di pagare, in tempo reale, il
programma che si è scelto, solitamente attraverso l’introduzione
nel decodificatore della smart card (cioè di una sorta di carta
di credito).
Per renderci conto
delle possibilità di successo della nuova forma di televisione a
pagamento ci basta guardare i dati. Potrebbero già esserne fruitori
ed abbonati potenziali tutti coloro che, aldilà dell’antenna che
consente di ricevere i classici canali in chiaro basati sul sistema analogico
(per semplificare diciamo che è quello che attualmente utilizza
per la trasmissione del segnale le onde radio), sono possessori di antenna
parabolica (utilizzata per la ricezione del segnale via satellite) o di
cavi in fibra ottica (queste innovazioni portano nelle case il sistema
digitale, che ha la possibilità di trasmettere molti più
dati e molti più canali): in Germania abbiamo ormai 26 milioni di
televisori cablati o con satellite (questi ultimi sono 9 milioni),
in Inghilterra vi sono 3,5 milioni di famiglie che hanno la tv via satellite,
in Francia vi sono 5 milioni di antenne paraboliche, in Italia un milione
ed in Spagna circa la metà: quasi tutti questi paesi stanno comunque
lavorando per collegare ogni casa con cavi in fibra ottica. Vari paesi
poi hanno già ampiamente diffuso il sistema della tv a pagamento
(pay tv): fra questi in testa è la Francia con 4 milioni di abbonati
alla pay tv di Canal Plus, segue l’Inghilterra con tre milioni e mezzo,
poi, a scalare, la Germania con 1,5 milioni, l’Italia con 800.000 abbonati
a Telepiù e la Spagna con circa 400.000.
I nuovi canali
tematici della pay per view sono partiti da poco ed hanno rischiato il
flop in alcuni paesi: per esempio in Germania, dove sono solo sessantamila
gli utenti che usufruiscono di questo servizio; in Italia dove, dopo un
anno, solo 80.000 persone sono abbonate alla pay per view di Telepiù
digitale (in Italia più che la smart card è operativo un
sistema che permettte di abbonarsi ad un evento particolare per tutto un
anno: ad esempio le partite della propria squadra in trasferta); ed in
Spagna che conta 80.000 abbonati alla tv digitale.
In questi nuovi
scenari televisivi, in cui le tv si specializzano per offrire ad uno spettatore
esigente e, soprattutto, pagante, uno spettacolo sempre più appetibile,
lo sport, ed in particolare il calcio, assume un ruolo preponderante.
Ecco così
nascere accordi nei vari paesi europei con le varie federazioni e con la
lega per avere la concessione dei diritti e la possibilità di trasmettere,
rispettando però le esigenze di palinsesto e le richieste degli
sponsor, le partite. Diventano così all’ordine del giorno anticipi,
spostamenti, partite rimandate all’ultimo momento in base ad esigenze di
programmazione. .
Ma vediamo ora,
nel dettaglio, come si è configurato in Italia questo strapotere
della televisione nei confronti del calcio.
Nel nostro paese,
come del resto in tutta Europa, dobbiamo registrare un notevole incremento
delle cifre versate dalle tv alla Lega per l’acquisizione dei diritti di
trasmissione tv delle partite. Se nel 1985 la Rai versava nelle casse della
Lega Calcio 13 miliardi, gli introiti per la vendita dei diritti televisivi
nella stagione 1995/96 ammontavano a circa 200 miliardi, versati da Rai
(148 miliardi) e Pay tv (52 miliardi); ma se i soldi pagati dalla Rai venivano
divisi quasi equamente tra squadre di Serie A e di Serie B, secondo un
accordo di mutualità teso a garantire le squadre più deboli,
la Pay tv elargiva, invece, alla Serie B meno di un terzo del compenso
complessivo.
Nelle stagioni
successive, poi, accresce notevolmente il peso della Pay tv ed entra in
scena la Pay per View, basti sapere che, per i diritti del campionato in
corso (1997/98) la Rai versa 197 miliardi, cui si aggiungono i 111 miliardi
della Pay tv ed i 93 della Pay per View (entrambe, peraltro targate Telepiù)
per un totale di 401 miliardi, dei quali circa 270 destinati alla Serie
A. A queste cifre si devono aggiungere i 23 miliardi pagati da Mediaset-TMC-Rai
per i diritti della Coppa Italia.
Ricordiamo che,
da questi calcoli sono esclusi i circa 100 miliardi annui che la Lega riceve
per il Totocalcio ed il Totogol. Sono, inoltre, escluse le vendite dei
diritti per le partite delle Coppe Europee e per le amichevoli, che sono
gestite direttamente da ogni singola squadra e sono esclusi, inoltre, i
consistenti premi per chi vince una Coppa europea, la Coppa Italia, il
Campionato (ben 12 miliardi).
L’accordo sopra
citato e stipulato per il campionato in corso, prevede: la trasmissione
delle partite della domenica pomeriggio in Pay per View, un posticipo di
Serie A in Pay tv la domenica sera, un anticipo di Serie B il sabato pomeriggio
in Pay tv, la differita di una partita di Serie A su TMC la domenica sera,
più le azioni salienti del campionato suddivise in orari diversi
tra le diverse reti. Questa suddivisione è frutto di un accordo
tra TMC, che si è aggiudicata la gara di assegnazione dei diritti
in “chiaro” e le altre reti.
Questa è
ancora una situazione di transizione. Rimane, infatti, tuttora non risolto
il problema relativo alla suddivisione, tra Serie A e B, degli introiti
derivanti dalla vendita dei diritti. Per i soldi Rai vige ancora il rapporto
di mutualità, anche se questo crea grosso scontento da parte delle
società maggiori che preferirebbero adottare il modello spagnolo,
secondo il quale ogni squadra gestisce da sè, senza la mediazione
della Lega, la vendita dei diritti alle tv.
Per quanto riguarda
gli introiti pervenuti da Pay tv e da Pay per View sono già stati
assunti dei parametri simili a quelli inglesi che prevedono, per le partite
criptate, la redistribuzione dei guadagni alle varie squadre in base al
rendimento degli ultimi anni, agli incassi, al numero di abbonati Pay per
View, etc. Ad esempio, per la stagione 1997/98 la Juventus incassa dalla
Pay per View circa 12 miliardi, mentre una società medio piccola
come il Bologna incassa 575 milioni e l’Empoli, cenerentola di Serie A,
può contare sul lauto contributo di 22 milioni.
Attualmente la
Pay per View viene considerata dalle varie società come un grande
affare nel quale vale la pena buttarsi. Dopo un anno di attività,
però, la Pay per View non ha dato ancora i risultati attesi. Gli
80.000 abbonamenti sottoscritti (52.000 per gli spettacoli calcistici)
sono, infatti, ben al di sotto dei 300.000 preventivati, rendendo piuttosto
ottimistico l’obbiettivo del milione di abbonati in tre anni. Se però
questo obbiettivo venisse raggiunto i proprietari della tv digitale si
impegnerebbero a versare fino al triplo della somma versata attualmente
per i diritti (si passerebbe cioè a 300 miliardi annui, di cui la
maggior parte per i grossi clubs). Dal canto suo, la proprietà di
Telepiù sta studiando nuove possibilità per abbassare i costi
dell’utente (abbattimento dei costi per antenna, decoder in affitto e non
più da acquistare); a ciò va aggiunto che la Telecom, in
collaborazione con la Rai, Mediaset e la stessa Telepiù sta installando
fibre ottiche per tv via cavo in tutto il paese. Ecco perchè le
squadre di calcio, attente a queste possibilità di introiti, stanno
incentivando, in tutti i modi, l’acquisto, da parte dei loro tifosi, di
un abbonamento alla pay per view per seguire le loro partite in trasferta
(anche perchè, uno dei fattori che contribuirà a far aumentare
gli introiti delle società derivanti dalla Pay Per View, sarà
il numero di abbonati a questo servizio per ogni squadra).
Il Piacenza ha
impostato la campagna abbonamenti offrendo l’abbonamento p.p.v. a sole
200.000; il Parma regala la p.p.v. per le trasferte della squadra ai 2588
posti disponibili in tribuna centrale (l’omaggio vale circa 400.000, l’abbonamento
in tribuna centrale costa 2 milioni e settecentomila); il Bologna propone
uno sconto pay per view per gli abbonati; molte squadre, poi, regalano
i biglietti per le partite casalinghe per chi ha attivato un abbonamento
Pay per View per vedere in televisione la squadra in trasferta.
Ultime chicche:
dopo gli incidenti di Atalanta-Brescia del 5 ottobre 1997, il presidente
della Lega calcio, Franco Carraro, al termine di un’assemblea di lega,
ha dichiarato:” Vedremo di scoraggiare il turismo calcistico organizzato,
visto che oggi la tecnologia permette di vedere le partite in trasferta
della propria squadra su maxischermi o in casa propria attraverso la pay
per view”.
Con questa
affermazione il presidente della Lega da una parte segue la via già
delineata dal SIULP (sindacato di Polizia) di Firenze che, nel gennaio
del ‘97, affermava, in un comunicato stampa intitolato “Tifosi in trasferta?
No, grazie.”, che, per risolvere il problema della violenza negli stadi,
era sufficiente proibire le trasferte ai tifosi, e dall’altro pensa agli
interessi economici delle varie società calcistiche che guadagnerebbero
certamente più soldi dalla tv a pagamento se questa diventasse l’unica
soluzione possibile per vedere giocare la propria squadra in trasferta.
Ecco perchè vengono scoraggiate anche le possibilità di vedere
collettivamente le partite giocate in trasferta: Lega e Telepiù+
hanno infatti vietato, dalla stagione 1998/99, gli abbonamenti alla Pay
Tv ed alla Pay Per View da parte dei locali pubblici. Quelli che
intendono trasmettere le partite devono accordarsi direttamente con la
Lega Calcio e versare soldi nelle sue casse.
Sponsorizzazioni
e costo dei giocatori
Le varie forme di
pubblicità e di sponsorizzazione attorno all’evento calcistico affermatesi
negli Anni Ottanta hanno avuto modo, in questi ultimi anni, di progredire,
di affinarsi e di essere sempre più importanti per le entrate delle
società calcistiche.
La pubblicità
televisiva si è sempre più specializzata: di solito sono
ditte di abbigliamento sportivo, compagnie produttrici di bevande dissetanti,
società automobilistiche a sponsorizzare il calcio in tv. Capita
sempre più frequentemente poi che molte di queste aziende che puntano
sullo spot televisivo siano anche proprietarie, sponsor ufficiali o sponsor
tecnici di una o più squadre. Alcune di queste utilizzano poi come
testimonial per le loro campagne pubblicitarie uno o più giocatori
particolarmente rappresentativi. Ad esempio la Diadora è sponsor
tecnico del Bologna 1997/98, ed utilizza per le sue campagne pubblicitarie
l’immagine che ha comprato in esclusiva del nuovo idolo del Bologna Roberto
Baggio.
Le nuove tecnologie
digitali rendono poi possibile l’introduzione di una nuova forma di pubblicità
che si ritiene possa avere, in futuro, un notevole sviluppo: la pubblicità
virtuale. Si tratta di messaggi e scritte pubblicitarie elaborati dal computer
ed inseriti sulle immagini televisive che trasmettono in diretta l’evento
(una scritta pubblicitaria virtuale al centro del rettangolo di gioco o
a bordo campo, una sorta di dirigibile sponsorizzato che vola sulla testa
dei giocatori). In Italia questa novita, ancora sperimentale, è
stata introdotta, nel settembre del 1997, per la sfida di Coppa Uefa tra
Lazio e Vitoria Guimaraes, dopo che era già stata sperimentata in
Germania ed in Inghilterra. Questa novità può portare all’apertura
di notevoli mercati perchè è possibile, trasmettendo l’evento
sportivo in diversi paesi, differenziare gli spazi pubblicitari, inserendo
con il computer per ogni paese degli sponsor diversi
Può essere
utile dare uno sguardo alle cifre.
Alla Serie A di
calcio gli sponsor portano dai 135 ai 150 miliardi all’anno.Vi sono i cosidetti
sponsor ufficiali (quelli che di solito sponsorizzano le maglie) il cui
contributo varia molto a seconda che si tratti di una squadra piccola o
grande; si parte dal mezzo miliardo fino ad arrivare ai 23 miliardi che
il Milan ottiene dai suoi sponsor: l’Opel (11 miliardi) e la Lotto (12
miliardi). Negli ultimi due anni è in forte crescita un mercato
nuovo, quello degli sponsor tecnici e dei fornitori ufficiali; sono cioè
triplicati gli introiti di un tipo di sponsorizzazione che prima non veniva
sfruttata: ad una squadra, fino a poco tempo fa, una ditta di scarpe da
calcio, ad esempio, regalava le scarpette ma non pagava perchè la
squadra le indossasse. Ora, invece, quelle degli sponsor tecnici e dei
fornitori ufficiali sono vere e proprie sponsorizzazioni pagate profumatamente:
si va dagli sponsor tecnici che forniscono le scarpe, i calzoncini, le
bevande alla squadra, a quelli che forniscono il materiale più vario
(basti pensare che una nota casa di materassi ha impostato la sua campagna
pubblicitaria sul fatto che è fornitrice ufficiale di materassi
della Juventus e del Borussia Dortmund). La stessa Juventus incassa circa
25 miliardi di lire da tutte quelle ditte disposte a pagare perchè
il proprio marchio sia accostato a quello del club .
L’Inter, che nella
stagione 1995/96 ha avuto dai vari sponsor e fornitori circa 10 miliardi,
sta attualmente lavorando per raddoppiare questa cifra nel giro di due
anni. E così, rimangono come sponsor ufficiali la Pirelli (che ha
anche una quota societaria) ed Umbro, ma subentra con 1,2 miliardi la Winterthur
che, in qualità di fornitore ufficiale in questo caso di assicurazioni,
si affianca agli altri fornitori: Birra Moretti, Moka Arabica, Apple Computer.
Chiaramente lo stesso acquisto dell’asso Ronaldo è da vedersi in
una strategia commerciale ad ampio raggio: attrarre più sponsor,
ottenere più introiti per la vendita dei diritti tv, sviluppare
il merchandising ed essere più appetibili nel caso di quotazione
in borsa. Dello stesso tenore, cioè operazione commerciale in senso
lato, è stato l’acquisto da parte del Bologna di Roberto Baggio.
La Nike, nota ditta
americana di abbigliamento sportivo, ha puntato sul Napoli per pubblicizzare
il suo marchio in Italia. Il Napoli, infatti, non è attualmente
una grossa squadra però ha un parco tifosi immenso ed è la
quarta squadra negli abbonamenti pay per view. L’investimento della Nike,
che sponsorizza già squadre tipo il Borussia Dortmund, il Psv Eindoven,
l’Arsenal, è di 10 miliardi in tre anni.
La filosofia riguardo
le sponsorizzazioni ha prodotto vere e proprie strategie d’intervento sul
mercato. Il gruppo Parmalat, di proprietà della famiglia Tanzi,
ha comprato il Parma, ne sponsorizza le divise e stipula contratti in esclusiva
con i migliori giocatori della squadra. Si è così volutamente
creata una tale identità tra il nome della squadra e l’azienda che,
dopo la vittoria della Coppa delle Coppe, molti commentatori stranieri
hanno chiamato la squadra Parmalat. D’altronde pare che il Parma comprò,
nei primi anni Novanta, il popolare portiere del Brasile Taffarel non tanto
per la sua bravura (molto discussa) ma perchè in quegli anni la
Parmalat aveva in progetto di sfondare con i suoi prodotti in Brasile!
In effetti, è
proprio parte della filosofia imprenditoriale di Tanzi, il pubblicizzare
la sua azienda con il calcio: ogni acquisizione dell’azienda all’estero
ed ogni apertura ad un nuovo mercato è infatti accompagnata da una
sponsorizzazione calcistica. Così la Parmalat si è presentata
sul mercato sudamericano, sponsorizzando in Brasile il Palmeiras ed in
Argentina il Boca Juniors; in Russia la Dinamo Mosca; in Portogallo il
Benfica
Lo sponsor è
chiaramente attratto dalla possibilità di accostare il proprio marchio
ad una squadra competitiva e piena di campioni ed è disposto a pagare
delle cifre astronomiche perchè così vengono garantiti più
passaggi televisivi nei quali lo sponsor ufficiale è presente in
bella vista sulle magliette della squadra ed i vari sponsor tecnici possono
apparire, attraverso lo sguardo attento delle telecamere, sui calzettoni,
sulle scarpe o sulla cassetta dei medicinali. Ciò comporta anche
una incredibile lievitazione dei prezzi d’acquisto dei calciatori ancora
sotto contratto per un’altra squadra, specie di quelli particolarmente
ricercati dallo sponsor. Per accappararsi un Ronaldo od un Vieri vengono
pagate delle cifre altissime (80 miliardi in quattro stagioni per il primo;
35 miliardi per il secondo).
Conseguentemente
anche i costi d’ingaggio sono andati alle stelle. A tirare il mercato attualmente
sono gli inglesi e gli spagnoli (anche molti giocatori del campionato italiano
che veniva fino a poco tempo fa giudicato il più bello e soprattutto
più ricco del mondo, sono emigrati in questi paesi attratti dai
lauti ingaggi). Agli ingaggi esteri si sono dovuti adeguare anche le squadre
italiane per mantenere i loro giocatori più rappresentativi. Infatti,
se ad un campione come Gullit la Sampdoria, per la stagione 1994-95, corrispondeva
uno stipendio netto annuo di circa un miliardo e mezzo, nella stagione
in corso (1997-98) molti degli stipendi annui corrisposti ai giocatori
- e non solo ai fuoriclasse indiscussi - sono aumentati considerevolmente
per paura della concorrenza estera. Così, ad un grande campione
come Ronaldo vanno circa sei miliardi all’anno; ma già per un Boksic
la Lazio paga quattro miliardi a campionato. La lunga lista degli ingaggi
per veri campioni e presunti tali continua con Mancini (3,5 miliardi);
Baggio e Batistuta (2,7); Maldini, Kluivert e Ziege (2,5); Simeone (2,2);
Inzaghi (1,8); Cafù (1,7)..... .
Merchandising, nuova gestione degli stadi e costo dei biglietti
Abbiamo visto come
la vendita dei diritti televisivi e le conseguenti maggiori sponsorizzazioni,
unite ad uno sfruttamento commerciale, come mai prima d’ora, del marchio
(merchandising) che analizzeremo in seguito, abbiano fatto crescere, quasi
in progressione geometrica, le entrate delle società calcistiche.
In un contesto così ridisegnato le entrate per la vendita di biglietti
ed abbonamenti, tradizionalmente tra le fonti prime di introiti, arrivano
a costituire una percentuale ridotta delle entrate, e dei guadagni, complessivi
di una società di calcio.
Se infatti la ribalta
tv ha reso più appetibili e quindi più costosi gli investimenti
pubblicitari su una squadra, essa ha anche comportato un considerevole
allargamento dei sostenitori o “simpatizzanti” di un singolo club che vede
nascere e proliferare un nuovo mercato disposto ad assorbire una produzione
di gadgets e di vario materiale con impresso il marchio della squadra:
si va dal più tradizionale abbigliamento (magliette con il nome
del giocatore, tute, cappellini, sciarpe et) a riviste, libri e videocassette
create appositamente, per arrivare al più libero e sfrenato esercizio
della fantasia che crea accendini, posacenere, biro, bicchieri, portachiavi
etc.
Per la commercializzazione
sistematica di questo materiale viene poi creata una capillare rete di
vendita diretta gestita dalle società.
Basti pensare che
in Inghilterra, paese che, per primo, ha dato un’impostazione industriale
al merchandising, i maggiori clubs realizzano, con la vendita di materiale
col proprio marchio, oltre un terzo del loro fatturato complessivo; è
il caso, ad esempio, del Manchester United che, di solo merchandising ha
fatturato, nel 1996, 53 miliardi di lire a fronte di un fatturato complessivo
di 133 miliardi.
In Italia, lo sfruttamento
industriale del merchandising è ancora un fenomeno ridotto in considerazione
anche del fatto che qui, a differenza che negli altri paesi, la gestione,
certamente a livello molto artigianale ma anche più creativa, del
materiale col simbolo della squadra è in mano, in parte, ai gruppi
di tifosi organizzati (che spesso provvedono da soli a stampare la sciarpa
su cui accanto ai colori o al simbolo della squadra compare il nome o il
simbolo del gruppo, e poi a rivenderla per autofinanziare le attività
del gruppo) o ad un rete di commercianti semiabusivi.
Il concetto stesso
di “marchio” è un’acquisizione piuttosto recente, tanto che è
solo da poco che molte società hanno provveduto a depositarlo.
Certo molti clubs
hanno già capito le potenzialità di questo mercato e si stanno
attrezzando adeguatamente: sono nati, infatti, molti punti vendita e si
sono registrate vere e proprie vendite record di magliette in occasione
dell’acquisto di un qualche campione (è il caso della maglia di
Ronaldo messa in vendita dall’Inter, appena notificato l’acquisto del giocatore,
alla cifra di lire.140.000, di cui sono stati venduti, in pochissimo tempo,
più di 4.000 esemplari; simile è il caso della maglia di
Baggio, venduta in migliaia di copie a 120.000 lire ognuna in occasione
del suo passaggio al Bologna).
Certo rispetto
al “modello inglese” rimane ancora grande il divario: il Milan che è
tra le squadre italiane con un merchandising più sviluppato, ha
un fatturato relativo 5 volte inferiore rispetto a quello del Manchester
United.
La direzione cui
tutte queste trasformazioni stanno tendendo è quella di cominciare
a considerare il pubblico che segue il calcio non come appassionato o tifoso
ma come potenziale consumatore; le società di calcio vengono così
a configurarsi sempre più come società di servizio. E’ soprattutto
la vendita dei diritti tv e la conseguente possibilità di vedere
sullo schermo di casa propria le partite a far affiorare un pubblico nuovo,
disposto a spendere; per le società diventa così prioritario
non solo rispondere alle esigenze di questo nuovo pubblico, ma anche stimolarle
ed indirizzarle quando non crearle.
A questo fine si
rende anche necessario un ripensamento ed un ridisegno delle forme e delle
strutture tradizionali degli stadi.
Questa esigenza,
che si manifesta in Inghilterra prima che altrove, viene però ad
inserirsi in una situazione strutturale da cui prende vita un dibattito
politico a tutto campo sulla necessità di ripensare e riprogettare
i luoghi tradizionali in cui ha luogo l’evento sportivo.
Se infatti la tragedia
dello stadio Heysel in Belgio durante la finale di Coppa Campioni tra Liverpool
e Juventus, dove sotto la pressione degli hooligans della squadra inglese
cedono le strutture in cui si trovavano dei tifosi italiani causando la
morte di 39 persone, viene considerata semplice conseguenza della brutale,
incontrollata violenza di un gruppo di tifosi hooligans (senza tenere nel
dovuto conto la fatiscenza delle strutture dello stadio belga, l’inefficienza
delle forze dell’ordine, l’incapacità dell’organizzazione di controllare
l’emissione di biglietti realmente venduti - gli spettatori superavano
di molto l’effettiva capienza dello stadio -), non si può così
spiegare la successiva catastrofe dello stadio Hillsborough a Sheffield
nel 1989 in cui muoiono schiacciati, contro quelle recinzioni che dovevano
proteggerli, ben 96 tifosi inglesi .
Ad indirizzare
la ristrutturazione dei vecchi stadi è così, inanzitutto,
la necessità di garantirne la sicurezza. Se da parte dei tifosi,
molto attivi in quegli anni con la FSA (Football Supporters Associations)
ed il movimento dei Fanzinemakers, si chiede l’eliminazione di barriere,
recinti e fossati e la creazione di vie di fuga per gli spettatori, le
società (ed il governo) spingono invece per la costruzione di stadi
con tutti posti a sedere, magari più piccoli, ma certamente più
comodi.
E mentre il vecchio
modo di intendere il calcio viene archiviato con la trasformazione della
First Division in Premiere League, si impone, in vista anche dell’organizzazione
degli europei ‘96, per i quali il governo offre grossi finanziamenti alle
società - in Inghilterra sono gli stessi clubs ad essere tradizionalmente
proprietari degli stadi - , un modello di stadio per famiglie, luogo di
intrattenimento totale in cui la partita non è che uno dei tanti
svaghi di cui si può usufruire.
Ecco allora la
costruzione degli spazi vip molto accurati e sofisticati, dove si è
in pochi, si sta comodissimi e si paga tanto.
Ecco tutti gli
altri settori intermedi che diventano più confortevoli e più
cari: ognuno ha la sua poltroncina numerata che può lasciare anche
vuota per usufruire di uno dei numerosi bar o ristoranti dello stadio o
di uno dei vari punti vendita che offrono le ultime novità in fatto
di gadgets.
Ed ecco, soprattutto,
le ends (curve), prima piene di persone che con entusiasmo cantavano, ballavano
ed incitavano la squadra ed ora sottoposte a strettissimi vincoli: non
ci si può più alzare dal seggiolino pena l’intervento della
sicurezza, non ci si può più rivolgere all’arbitro (neanche
in caso di contestazioni clamorose) pena l’accusa di istigazione alla violenza;
tutti seduti, tutti composti e, soprattutto, tutti disponibili a pagare
un biglietto più caro di prima.
E’ certamente un
clima molto diverso quello che si respira ora negli stadi inglesi; il target
dei fruitori sta velocemente cambiando: è senz’altro il ceto medio
ad affollare maggiormente gli spalti, mentre il ceto più popolare
o anche coloro che consideravano andare alla partita una festa in cui essere
protagonisti (e non necessariamente per le risse, ma per il calore, l’entusiasmo,
la partecipazione) si sentono messi in un angolo: il calcio è diventato
per loro un “divertimento” troppo costoso, oppure talmente privo delle
sue caratteristiche essenziali per essere considerato ancora degno di interesse.
Infatti, i prezzi
dei biglietti, soprattutto quelli più popolari, hanno subito, negli
ultimi anni aumenti vertiginosi, tanto da arrivare a superare i prezzi
dei biglietti italiani che vantavano, ormai da molti anni, il primato in
Europa. E certo le ragioni del forte aumento dei prezzi più popolari
- una media di circa 33.000 lire nella stagione 1996/97 contro le 30.000
circa in Italia - sono da ricercarsi nella minor capienza dei nuovi
stadi ristrutturati che hanno sostituito tutti i posti in piedi con posti
a sedere. Sono state, però, anche ragioni di mercato dettate dalla
volontà da parte del club, di portare allo stadio un tipo di pubblico
più disposto a spendere per tutto l’insieme di servizi collaterali
che fanno da cornice all’evento calcistico (vendita merchandising, ristoranti,
pubs et). Questo risultato si è ottenuto da un lato con una politica
dei prezzi più alti e con l’allargamento del settore destinato ai
vip, dall’altro con l’introduzione di agevolazioni speciali nei confronti
di un certo tipo di pubblico (le famiglie) che possono portare potenzialmente
più soldi nelle casse del club.
Anche gli altri
paesi europei stanno percorrendo la strada indicata dall’Inghilterra e,
per una coincidenza forse neanche troppo strana, è l’organizzazione
di una competizione internazionale a far da catalizzatore di tutti i cambiamenti:
per l’Italia lo sono stati i mondiali del ‘90, per l’Inghilterra gli europei
del ‘96 e per la Germania ci sono in ballo i mondiali del 2006.
Anche in Germania,
negli ultimi anni si è provveduto ad una ristrutturazione di molti
stadi che ha avuto ripercussioni anche sul costo dei biglietti più
popolari, aumentati di circa il 20% in soli due anni. Ed anche lì,
la tendenza è quella di uno “stadio totale”, in grado di offrire
una vasta gamma di servizi e, per disposizione della FIFA fatta propria
dalla DFB (Federazione calcistica tedesca) di sostotuire i posti in piedi
con posti a sedere. Certo contro questa tendenza in Germania si è
registrata, ed è tuttora in corso, una decisa sollevazione dei tifosi,
soprattutto quelli riuniti nel BAFF (lega dei tifosi di calcio attivi)
e nei vari Fanprojekte (progetti sui tifosi). Ma il modello che prevale
rimane, comunque, quello che ha trovato completa realizzazione nella ristrutturazione
dello stadio di Brema.
Ecco come questo
appare al visitatore: il rettilineo della tribuna è interamente
occupato da file di confortevoli poltroncine che vanno diradandosi verso
il centro per fare posto ad una decina di palchetti vip posti nella parte
superiore della tribuna. A questi palchetti, separati dall’esterno da una
splendida vetrata, si accede dall’interno dello stadio percorrendo un corridoio
parallelo alla tribuna che si allarga formando delle confortevoli salette
bar, con teleschermi che trasmettono in diretta la partita in corso allo
stadio, nelle quali sono esposti i cimeli del grande Werder (le scarpette
di Rudi Voeller, le vecchie casacche della società etc.). Dal corridoio
una serie di porte conduce nei palchetti dove trovano posto i vip che possono
permettersi, con una spesa che parte dai 30 per arrivare ai 50 milioni
a stagione dei palchetti più centrali, questa comodità.
Il palchetto risulta
molto comodo; vi possono trovare posto in quattro o cinque persone, vi
sono delle comode poltrone, un tavolino, uno schermo dove rivedere al rallenty
le azioni, e si può ordinare al bar un tee o al ristorante direttamente
da mangiare. Di solito questi palchi possono essere affittati o a personalità
o a ditte che vogliono far passare un bel pomeriggio ad un loro cliente
particolarmente importante (raramente, si mormora, ci sono state richieste
in tal senso da operai impiegati ed infermieri)
Il resto dello
stadio risulta tutto occcupato dai posti a sedere: così la curva
Ovest, dove di solito sono collocati i tifosi ospiti, così i distinti.
La curva Est mantiene, invece, un settore riservato ai tifosi che vogliono
stare in piedi (a causa, o meglio grazie ad una estenuante battaglia per
il mantenimento di alcuni posti in piedi che i tifosi insieme al Fanprojekt
locale hanno condotto nelle ultime stagioni ). Rispetto a prima della ristrutturazione
lo limita però molto e lo riduce solamente al primo anello, costringendo
gli spettatori ad essere poi divisi fila per fila da strutture di metallo
che hanno incorporati dei seggiolini estraibili che vengono utilizzati,
secondo i severi dettami FIFA ed UEFA, in tutte le partite internazionali.
Il secondo anello è sacrificato sull’altare di una presunta sicurezza
ed è dotato esclusivamente di posti a sedere che, naturalmente,
costano di più. Ma la cosa più interessante, il parto della
grande imprenditoria calcistica è al centro, tra primo e secondo
anello, nel luogo di congiunzione tra settore alto e basso della curva.
Per permettere una maggior socializzazione tra i due settori è stata
inserita una bellissima vetrata che prende la lunghezza dell’intera curva.
Dietro la vetrata cosa c’è? Basta tornare al corridoio della tribuna
vip per scoprirlo. Si percorre fino in fondo il corridoio della tribuna
fino ad arrivare all’angolo con la curva. Da lì si entra in un grande
e raffinato locale che offre deliziosi spuntini, bevande profumate per
i propri clienti. Si chiama sala Business ed ha circa settecento posti
a sedere. Da questa sala si può sbirciare un po’ di partita attraverso
la vetrata di cui si diceva prima, ma è forse più facile
discutere amabilmente in compagnia e dare qualche occhiata ai vari monitor
che contornano la sala. Se proprio volete vedere dal vivo la partita allora
per la modica somma di 100.000 potete strappare un biglietto per stare
comodamente seduti in una poltrona da cinema (larghezza 80 cm.), guardare
attraverso l’enorme vetrata di cui prima e cogliere così, in prima
fila (come diceva uno spot per promuovere il canone RAI) sia le fatiche
e le belle azioni dei vostri beniamini che l’esotismo di quei pittoreschi
tifosi (un po’ troppo naif, per la verità)che si infiammano
per un’azione, e poi urlano, saltano, sventolano le bandiere e le sciarpe:
un’emozione unica!. Per completezza d’informazioni ricordiamo, sotto il
settore vip il ristorante Villa Verde che offre un buffett (caldo o freddo
a scelta) alla modica cifra di 50.000 per gli abbonati, e il Werder Point
sotto il settore dei distinti che vende tutti i gadgets possibili ed inimmaginabili.
A differenza degli
stadi inglesi, dove entrando si ha davvero l’impressione di entrare in
un mondo dove tutto appartiene al club, in Germania, paese di forte e radicata
cultura sociale, anche in considerazione del fatto che lo stadio è
proprietà dei comuni, esso conserva, nella nuova ristrutturazione,
i segni della sua originaria funzione pubblica.
Così, nello
stadio di Brema ha trovato posto anche il centro di riabilitazione accessibile
a tutti, il Fanprojekt locale (tra i più organizzati di tutta la
Germania) e la piscina comunale; lo stadio poi è a disposizione
di molte rappresentanze scolastiche di atletica leggera per gli allenamenti.
La ristrutturazione
degli stadi italiani ha avuto corso nella seconda metà degli anni
‘80 e rispondeva alla necessità di modernizzare e rendere più
sicuri gli impianti in previsione soprattutto dello svolgimento dei mondiali
di calcio del ‘90. Abbiamo visto come, in quegli anni il calcio in Italia
stesse vivendo una grossa accelerazione con l’ingresso in scena della tv
commerciale e l’imposizione di nuove strategie commerciali da parte di
Berlusconi. A queste strategie non apparteneva ancora, l’abbiamo detto,
l’idea di stadio “da famiglia”, dotato di ogni comfort e servizio.
A condizionare
la ristrutturazione degli stadi è stata, quindi, soprattutto, la
necessità di garantire la sicurezza e di sostituire strutture ormai
vecchie e poco affidabili.
I nuovi stadi eliminano
i posti in piedi sostituendoli con posti a sedere in ogni settore aderendo
così alle recenti direttive FIFA che prevedono, per le gare internazionali,
solo posti a sedere.
Nelle curve però
questi nuovi posti a sedere sono risultati ampiamente inutilizzabili, ed
è ancora abitudine comune assistere alle partite in piedi (certo,
in caso di emergenza i seggiolini installati possono anche risultare pericolosi
ed intralciare la fuga dalle gradinate)
Contemporaneamente
alla eliminazione dei posti a sedere ed alla conseguente riduzione dei
posti popolari nelle curve, sono aumentati i prezzi dei biglietti, già
molto alti in Italia rispetto agli altri paesi europei. Si è passati
così da una media di costo del biglietto a partita, per i posti
più popolari, di 15.702 lire nella stagione 1986/87 ad una media
di 27.123 lire del 1990/91, cioè quasi ad un raddoppio dei prezzi
in quattro anni.
Certo gli aumenti
dei biglietti sono da imputare anche agli altissimi ingaggi dei giocatori
che mai prima di allora venivano pagati così tanto.
Per gli stadi italiani
però, a pochi anni dalla loro ristrutturazione, sembra aprirsi una
nuova fase. Nei primi mesi del ‘97, in seguito ad alcuni episodi di violenza
ultrà, il Vicepresidente del Consiglio del Governo dell’Ulivo, onorevole
Veltroni, con delega allo sport, ha riproposto all’attenzione dei media
come antidoto efficacissimo contro la violenza, l’idea dello stadio per
famiglie; uno stadio gestito direttamente dalle società e capace
di offrire spettacoli molteplici (non solo la partita) ed i più
svariati servizi. E’ il modello inglese ad ispirare direttamente Veltroni
che lo elogia e lo cita come unica soluzione possibile contro la violenza
negli stadi. Sulla stessa linea, ma per diversi motivi, sono i presidenti
delle società di calcio che sempre più vorrebbero privatizzare
gli stadi (per ora generalmente patrimonio pubblico, dei comuni) e gestirli
direttamente come in Inghilterra. E’ il caso, ad esempio, del Parma che
vorrebbe comprare il Tardini, lo stadio della citttà, o del Vicenza,
la cui nuova proprietà inglese vorrebbe che il comune gli regalasse
lo stadio che poi la società ristrutturerebbe; del Milan e dell’Inter
che stanno pensando di costruirsi assieme il loro stadio privato, se non
riusciranno ad ottenere S.Siro.
Per ora l’unico
stadio privato italiano è il Giglio della Reggiana. Uno stadio costato
25 miliardi che si pone però ancora nel solco dei tradizionali modelli
di stadio, non recependo quelle trasformazioni strutturali legate soprattutto
ad un suo sfruttamento a fini commerciali.
Borsa
Nella filosofia
che ha guidato le profonde trasformazioni del calcio inglese e che puntava
ad una sempre maggior acquisizione di capitali (cessione dei diritti tv,
merchandising, sponsorizzazioni etc.) tanto da portare il calcio inglese
ai vertici mondiali, la quotazione in borsa dei clubs costituiva un passaggio
fondamentale. E, se si escludono poche eccezioni ( 1983 Tottenham Hotspur;
1989 Millwall; 1991 Manchester United) la maggior parte dei clubs ha affrontato
il grande passo tra metà ‘96 e metà ‘97. Solo in pochissimi
casi, quindi, si possono fare studi per verificare la tenuta di un titolo
calcistico nel corso degli anni; per la maggior parte dei casi, invece,
il lasso di tempo da considerare è piuttosto breve, ma presenta
già tendenze e comportamenti generali che consentono di poter avanzare
un giudizio complessivo.
Se, infatti, nella
prima metà del ‘96, periodo cui risalgono varie quotazioni, il valore
delle azioni di molti clubs ha subito una forte impennata, tanto da rendere
euforico il mercato (nonostante da più parti fosse stata segnalata
una eccessiva sopravalutazione di questi titoli); già nei primi
sei mesi di quest’anno (1997) le squadre quotate hanno perso in media il
29% del loro valore; il picco negativo raggiunge poi il 34% se i dati sono
relazionati al solo periodo estivo.
A marzo 1997, in
piena ondata speculativa, quando il listino delle società di calcio
era arrivato a capitalizzare circa 5.000 miliardi di lire, gli esperti
sostenevano che, entro la fine dell’anno, il valore delle quotazioni delle
squadre di calcio avrebbe oltrepassato i 6.000 miliardi. A giugno, invece,
si è dovuto prendere atto delle errate previsioni: la capitalizzazione
era, infatti, scesa a 3.600 miliardi.
Chiaramente sono
le squadre di medio livello a far registrare le maggiori difficoltà:
il Birmingham a - 24%; il Charlton Athletic a - 31%; l’Aston Villa a -
24%; il Millwall, poi, all’inizio dell’anno ha pagato con il fallimento
e con la sospensione dal listino, la retrocessione dalla Premiere League
alla First Division.
Anche studi recenti
della società di certificazione “Deloitte & Touche” mostrano,
infatti, quanto stretta sia la relazione tra risultati della squadra e
valore delle sue azioni. Solo alcuni grandi clubs, più solidi
per gestione finanziaria e situazione patrimoniale, stanno dimostrando
di saper resistere agli scossoni della Borsa.
Al Manchester United,
infatti, l’annuncio del ritiro di Eric Cantona è costato solo un
1% di perdita del valore delle sue azioni, mentre l’infortunio di Alan
Sherear ha comportato per il Newcastle un crollo di ben 7 punti percentuali.
Anche per quanto
riguarda la quotazione in Borsa, come per la gestione degli stadi e per
il merchandising, i clubs inglesi si pongono da modello per tutti gli altri
paesi europei.
D’altra parte,
la feroce concorrenza tra i vari campionati per contendersi la leadership
(da qualche anno saldamente in mano alla Premiere League, e con una Liga
spagnola in forte ascesa) rende urgente la necessità di reperire
fondi sempre più ingenti. E’ il caso soprattutto delle società
di calcio italiane che, pur restando ancora ai vertici europei per numero
di vittorie, continuano a registrare dei bilanci in rosso. Si pensi che,
secondo uno studio della Mc Kinsey, negli ultimi quattro anni le società
hanno registrato un passivo di bilancio di circa 1.000 miliardi di lire.
Per il calcio italiano
quella della quotazione in Borsa, si profila, quindi, come una soluzione
auspicabile. Molti clubs hanno affidato ad importanti banche d’affari (la
Juve alla Salomon Brothers, l’Inter alla Deutsche Morgan Grenfell, il Milan
alla Rothschild Italia ed alla Lehman Brothers, la Lazio all’Unione Banche
Svizzere, il Bologna alla Nomura, il Vicenza all’Imi) la valutazione dei
propri bilanci ed il progetto della quotazione. La borsa di Londra dove
molte squadre italiane sembrano orientate a quotarsi, considerate anche
le pesanti fluttuazioni e le recenti e forti perdite fatte registrare dai
titoli calcistici negli ultimi mesi, si mostra molto più cauta nell’accettare
nuove offerte di quotazioni. A maggior ragione se la squadra da quotare
è straniera.
Per essere scelta
da un investitore, infatti, le azioni della squadra devono avere un prezzo
interessante che possa far fronte anche al ritardo del business calcistico
italiano rispetto a quello britannico.
Alle squadre italiane
manca, com’è invece per le inglesi, la proprietà e la gestione
dello stadio; così come, l’abbiamo visto, non hanno ancora abbastanza
sviluppato la commercializzazione dei “prodotti” con il loro marchio: il
Manchester United, ad esempio, vede coperto circa il 40% del suo fatturato
totale dal merchandising; per le squadre italiane (le maggiori) il merchandising
non supera il 10% del loro fatturato.
Per un discorso
a breve termine rimane fuori gioco la Borsa di Milano che sarebbe il naturale
sbocco per la quotazione delle squadre italiane e che, d’altra parte, non
vorrebbe farsi sfuggire l’occasione di allargare i propri listini proprio
nel momento in cui è in gioco la competività ed il rilancio
di Piazza Affari sulle altre Borse europee. Infatti, l’accesso in Borsa
in Italia è consentito esclusivamente a società che abbiano
il bilancio degli ultimi tre anni in attivo, e dato l’endemico costume
dei clubs nostrani di presentare bilanci in rosso non sono nelle condizioni
di far fronte alla per ora imprescindibile richiesta di Piazza Affari.
Sembra comunque
che il Consiglio di Borsa stia prendendo in considerazione la possibilità
di rendere più flessibili le condizioni di accesso al mercato. Solo
allora, comunque, per le squadre italiane si aprirebbero le porte della
Borsa di Milano. Per ora l’unica squadra italiana che sembra intenzionata
a dar avvio alla quotazione (presso la Borsa di Londra) in tempi brevi
è il Bologna. Le grandi sembrano invece posticipare l’obbiettivo.
Certo è
difficile poter fare considerazioni definitive dato il brevissimo lasso
di tempo passato dalla quotazione delle squadre inglesi; d’altra parte
in Borsa un titolo è considerato affidabile solo in considerazione
della sua tenuta nel corso degli anni e della percentuale di rendimento
del capitale all’atto della distribuzione dei dividendi.
E l’unica squadra
su cui si possono avanzare valutazioni sulla tenuta negli anni è
il Tottenham. Ebbene, come rileva Maurizio Bertone su “La Stampa” del 17
agosto 1997, un’azione del Tottenham valeva, al momento della sua quotazione
(1983) 100 sterline. Oggi ne vale 99,5. Nello stesso lasso di tempo un
investiments trust dei più tranquilli, il Foreign & Colonial,
ha visto le stesse 100 sterline di quotazione iniziale arrivare oggi a
905!
Considerazioni
finali
L’attuale potere
del mercato dei media, senza il quale l’evento calcistico non è
più immaginabile, ne ha fortemente influenzato il cambiamento, tanto
da configurarsi come elemento decisivo nel delineare il nuovo volto del
mondo del calcio: si va dalla creazione ad hoc di nuove regole (la modifica
della regola del fuori gioco, quella del passaggio indietro al portiere
per facilitare gli attaccanti e spettacolarizzare il gioco, l’introduzione
della regola dei tre punti e del divieto di curare un giocatore nel campo
di gioco: fino ad ipotizzare dei veri e propri time-out); al cambiamento
del calendario delle partite e degli orari del loro svolgimento, fino alla
trasformazione del tifoso, abituale fruitore dello spettacolo calcistico,
in potenziale, ricco cliente-consumatore.
Abbiamo visto come,
per andare incontro ad esigenze televisive, che vedono nel calcio uno spettacolo
di alto gradimento, di alta audience e quindi di alto interesse per gli
investimenti pubblicitari, è stata rotta la tradizionale compattezza
della normale giornata di campionato frammentandola in giorni e ore diverse.
Certo ci vuole
buona memoria a ricordare in che modo, in certi paesi, il Campionato si
snodi lungo l’arco della settimana e quale canale tv trasmetta le varie
partite; basta guardare all’esempio tedesco: una partita di Bundesliga
il venerdì (trasmessa su Premiere in pay tv), il turno il sabato
(con le azioni salienti in esclusiva su Sat1), un’altra partita di Bundesliga
su Premiere la domenica alle 18.00, la partita più importante della
Seconda Divisione il lunedì sera e, qualche volta, una partita il
martedì (sulla DSF di Leo Kirch).
Questo meccanismo
porta automaticamente a disincentivare le trasferte e, parallelamente ad
incentivare la possibilità di vedere, in diretta, a casa propria,
pagando profumatamente la tv che fornisce il servizio, le partite della
squadra del cuore.
Per il tifoso,
quello che si identifica nei colori della squadra, quello che vuole esserci,
diventa, infatti, sempre più difficile seguire la squadra in trasferta:
non solo per gli orari e i giorni delle partite, ma anche per i costi dei
biglietti disponibili per le gare fuori casa.
Rimaniamo sull’esempio
tedesco e sentiamo la testimonianza di alcuni tifosi apparsa su “Holt Euch
das Spiel zurück!” (Riprendiamoci il calcio!):
“Nel campionato
1993/94 solo quattro su diciannove sono stati gli incontri del girone di
ritorno che il 1860 Monaco ha potuto giocare al sabato (il giorno in cui
in Germania si svolge la giornata di campionato). Di questi solo due in
casa. Per cinque volte i Löwen (“leoni”: viene chiamata così
la squadra del 1860 perchè ha come simbolo un leone) hanno giocato
il venerdì sera, e questo poteva ancora andare bene, ma sei volte
ha giocato tra lunedì, martedì e mercoledì. Questo
da una parte danneggia i giocatori, che non avendo un giorno fisso in cui
giocare fanno fatica a trovare il ritmo giusto, ma dall’altra danneggia
fortemente i tifosi che per fare una trasferta durante la settimana devono
comunque mettere in preventivo uno o due giorni di ferie. Chi se lo può
permettere?” .
In questo modo
si va nella direzione di una progressiva, ma inesorabile, disaffezione
del pubblico più fedele che si trova costretto ad omologarsi al
pubblico televisivo.
Questo porterà
inevitabilmente ad un crollo del numero dei fedelissimi, rimpiazzati, semmai,
da una moltitudine di persone del bacino che ospita la partita che andranno
entusiasti a vedere le imprese del grande club (solo dei grandi però,
per i piccoli le cose saranno ben diverse) finché primeggerà,
offrirà spettacolo, bel gioco e vittorie, ma non avranno interesse
(è la tanto osannata legge del mercato!) a seguirlo nei momenti
difficili o peggio nei periodi veramente neri.
E non è
forse superfluo ricordare, per restare solo al caso italiano, che anche
grandi clubs hanno conosciuto stagioni difficili o anche solo campionati
deludenti: è il caso del Milan, anche in anni recenti, della Roma,
del Napoli, del Torino, del Genoa, del Bologna.
Sembrà sempre
più, infatti, una tendenza irreversibile, quella di considerare
gli spettatori solo in virtù del loro valore economico, reale o
potenziale che sia.
Se fino a qualche
tempo fa l’interesse principale dei presidenti o proprietari delle squadre
di calcio non era unicamente legato a profitti immediati e diretti, ma
al possibile prestigio e alla notorietà personale, al risultato
d’immagine che si rifletteva su imprese collaterali della società
proprietaria, ora la prepotente entrata in scena della televisione finisce
per portare, nelle casse della società, enormi flussi di denaro,
e anche per creare un nuovo mercato potenzialmente vastissimo.
Ecco perché,
in questa ottica puramente economica sono destinati a perdere sempre più
importanza i 50.000 che vanno allo stadio di contro ai milioni di telespettatori
che seguono la squadra in tv e che sono i primi potenziali abbonati a pay-tv
e pay-per-view e i primi potenziali compratori di tutti quei prodotti legati
al marchio che stanno diventando, sempre più prepotentemente, una
delle maggiori fonti di guadagno per le stesse società di calcio.
Alla volontà
di trasformazione del tifoso appassionato o spettatore che sia, in cliente
consumatore corrisponde anche il nuovo modello di costruzione e gestione
degli stadi, le cui ristrutturazioni, partite in Inghilterra, poi seguite
in molti paesi europei, hanno, almeno in teoria, risposto alla impellente
necessità di garantire la sicurezza all’interno degli stadi.
Ed è certamente
vero che molti impianti dalle strutture spesso fatiscenti avevano urgente
bisogno di essere ristrutturati e di rivedere profondamente il completo
sistema di sicurezza, ma è altrettanto vero che per far fronte a
queste esigenze si decide di imporre un modello di stadio e una sua gestione
completamente nuovi.
Ed è questo
nuovo modello di stadio per famiglie, luogo di spettacolo “totale” cui
si può assistere con grandi comodità, pieno di ristoranti,
caffé, punti vendita gadgets, che viene proposto da più parti,
buona ultima l’Italia, come unico deterrente possibile per contrastare
la violenza negli stadi.
Con la ristrutturazione,
le cui linee direttrici vanno considerate nel nuovo scenario aperto dalla
tv, e la conseguente diminuzione dei posti disponibili, soprattutto quelli
popolari, e i relativi alti costi di gestione che contribuiscono ad un
sensibile aumento del costo dei biglietti, viene a mutare sensibilmente,
certo in senso classista, la fisionomia del pubblico abituale frequentatore
degli stadi.
La stessa trasformazione
dello stadio in luogo dalle tante attrazioni, a metà tra il parco
divertimenti e i moderni centri commerciali, finisce per cancellare lo
stadio come luogo di socialità privilegiato in cui, in nome di un
valore condiviso, la fede nei colori della squadra, si ritrovano e si incontrano
persone di cultura, estrazione, formazione diverse, unite in modo altrove
impensabile da un legame profondo con la squadra che in quel momento, e
in quel luogo, rappresenta l’intera comunità.
Lo stadio, poi,
è tradizionalmente uno dei pochi luoghi, in una società che
vive di valori riflessi e indotti e che delega la partecipazione, in cui
il tifoso si propone come parte integrante dello spettacolo (lo spettacolo
della curva che è elemento essenziale dell’evento calcistico), come
protagonista di un rito condiviso e partecipato.
Ridisegnando la
struttura degli stadi e ridefinendo il rapporto con i propri spettatori,
il club rischia (in Inghilterra sta già succedendo) di allontanare
il tifoso attivo e di trasformare lo stadio in luogo neutro in cui gli
spettatori usufruiscono passivamente del servizio partita e degli altri
servizi offerti: finché la qualità dello spettacolo resterà
alta, gli spettatori affolleranno gli spalti, quando questa dovesse venire
meno, allora cambieranno stadio così come, in regime di libero mercato,
cambierebbero il ristorante non più in grado di offrire cibo di
qualità e prezzi competitivi.
Nei frangenti di
difficoltà, quindi, il club non potrebbe più aspettarsi il
calore dello zoccolo duro, di quei tifosi sfegatati per i quali la fede
nella squadra non dipende dalle vittorie e dalla posizione in classifica:
quei tifosi sono destinati a sparire.
Anche questo diventerebbe
un ulteriore elemento discriminante tra pochi grandi clubs sempre più
élite del calcio e i clubs minori: i primi, più ricchi, capaci
di pagare ingaggi da capogiro a fuoriclasse che attirano sponsor e tv,
capaci così di creare attenzione e interesse in un largo bacino
di utenza che garantirà, direttamente e indirettamente, nuovi introiti;
i secondi che, privi di ingenti capitali, non hanno la possibilità
di competere per l’acquisto di grossi campioni, non riuscendo a proporsi
come soggetto appetibile per sponsor e televisione, avranno difficoltà
di carattere finanziario e saranno sempre più costrette a lottare
per non retrocedere o a soccombere.
Gli esempi sono
molteplici, ci limitiamo a ricordare le difficoltà incontrate dall’Empoli,
noepromossa in Serie A per il Campionato ‘97-’98, nell’organizzare le amichevoli
precampionato con altre squadre della massima divisione, perché
tutte già impegnate in incontri sotto i riflettori che garantivano
ai presidenti e alle società gli incassi del botteghino e i tanti
soldi della tv che, nella desolazione del palinsesto estivo, promuoveva
partite inutili e spesso noiose come sfide del secolo e duelli all’ultimo
sangue.
.
Ma che fare di
fronte a questa ulteriore ristrutturazione economica che investe il mondo
del calcio?
Non è facile
rispondere a questo quesito, nè si può pensare di avere in
tasca una soluzione che riesca ad incidere su una trasformazione economica
in atto.
Possiamo tuttavia
suggerire alcuni percorsi.
Prima di tutto
occorre avere chiaro, e questa era una delle intenzioni del nostro saggio,
dove può portare la via seguita dai padroni del calcio e a quali
rischi può andare incontro.
A quel punto, però,
è necessario scegliere tra l’accettazione passiva di una serie di
cambiamenti destinati ad incidere drasticamente sul modo di vivere e di
intendere il calcio, e la ricerca dei termini e degli spazi per una reazione
che abbia in sè anche la forza di una proposizione.
E’ auspicabile
allora che gli ultrà, nei loro stadi, di fronte a delle azioni fatte
dalla società (un ingiustificato aumento del costo dei biglietti,
una ristrutturazione dello stadio ad imitazione del modello business inglese,
spostamenti per esigenze televisive in giorni ed ore impossibili delle
partite etc.) rispondano, come già in parte hanno fatto, con proteste,
striscioni, articoli su Fanzines, scioperi del tifo.
E’ auspicabile
inoltre che a livello locale, interagendo magari con altre forze presenti
sul territorio ad esempio i club di tifosi, si pongano come difensori di
una certa cultura del tifo, quella più popolare, meno venduta al
commercio, e più genuina, e si propongano anche come interlocutori
di chi vuole trasformare il calcio in puro profitto, dimenticando che esso
ha un’anima e che quest’anima è costituita essenzialmente dal rapporto
inscindibile che i tifosi hanno con la squadra che li rappresenta.
Tutto questo è
auspicabile, ma non è sufficiente.
Di fronte ad una
ristrutturazione che rischia di trasformare sostanzialmente il tipo di
pubblico degli stadi è necessario trovare, al fine di garantire
la stessa sopravvivenza del movimento ultrà e della cultura popolare
del tifo, un’unità di intenti a livello nazionale che consenta di
mettere da parte, almeno per un momento, i vari contrasti e gli odi che
caratterizzano i rapporti tra i gruppi.
Questo permetterebbe
l’organizzazione di iniziative comuni a tutti gli stadi italiani (ad esempio,
uno sciopero del tifo contro la commercializzazione o striscioni o coreografie
concordate) che avrebbero il merito di portare al centro del pubblico dibattito,
in genere sempre occupato dalla violenza, il tema della commercializzazione.
Segnerebbe, infatti,
un momento essenziale di crescita e di maturità, da parte del movimento
ultrà, la capacità di organizzarsi in una sorta di coordinamento
nazionale (come è già avvenuto in Germania con il BAFF) in
grado di proporsi - e di lottare per imporsi - come interlocutore di istituzioni
ed organismi impegnati a decidere sui destini del calcio.