Articolo apparso
su “Gomorra. Territori e culture della metropoli contemporanea”, Costa & Nolan,
novembre 1998
Allo
stadio con il carrello?
Le trasformazioni di
tipo economico che hanno investito, negli ultimi anni, il mondo del calcio
(dalla vendita dei diritti tv, alle sponsorizzazioni, al merchandising)
hanno portato le società di calcio a configurarsi sempre più
come società di servizio (è del 1996 la legge che sancisce
la finalità del lucro per le società calcistiche italiane);
cambia, di pari passo, il modo in cui le società guardano al loro
pubblico: non più, e non solo, appassionato o tifoso, ma soprattutto
potenziale consumatore. E’ soprattutto la vendita dei diritti tv e la conseguente
possibilità di vedere sullo schermo di casa propria le partite a
far affiorare un pubblico nuovo, disposto a spendere; per le società
diventa così prioritario non solo rispondere alle esigenze di questo
nuovo pubblico, ma anche stimolarle ed indirizzarle quando non crearle. A questo fine si
è reso anche necessario un ripensamento ed un ridisegno delle forme
e delle strutture tradizionali degli stadi. Questa esigenza,
che si è manifestata in Inghilterra prima che altrove, è
venuta però, in quel paese, ad inserirsi in una situazione strutturale
da cui prende vita un dibattito politico a tutto campo sulla necessità
di ripensare e riprogettare i luoghi tradizionali in cui ha luogo l’evento
sportivo. Se, infatti, la
tragedia dello stadio Heysel in Belgio durante la finale di Coppa Campioni
tra Liverpool e Juventus (maggio 1985) - dove sotto la pressione degli
hooligans della squadra inglese cedono le strutture in cui si trovavano
dei tifosi italiani causando la morte di 39 persone - viene considerata
semplice conseguenza della brutale, incontrollata violenza di un gruppo
di hooligans (senza tenere nel dovuto conto la fatiscenza delle strutture
dello stadio belga, l’inefficienza delle forze dell’ordine, l’incapacità
dell’organizzazione di controllare l’emissione di biglietti realmente venduti),
non si può così spiegare la successiva catastrofe dello stadio
Hillsborough a Sheffield nel 1989 in cui muoiono schiacciati, contro quelle
recinzioni che dovevano proteggerli, ben 96 tifosi inglesi . Ad indirizzare
la ristrutturazione dei vecchi stadi è così, inanzitutto,
la necessità di garantirne la sicurezza. Se da parte dei tifosi,
molto attivi in quegli anni con la FSA (Football Supporters Associations)
ed il movimento dei Fanzinemakers, si chiede l’eliminazione di barriere,
recinti e fossati e la creazione di vie di fuga per gli spettatori, le
società (ed il governo) spingono invece per la costruzione di stadi
con tutti posti a sedere, magari più piccoli, ma certamente più
comodi. E mentre il vecchio
modo di intendere il calcio viene archiviato con la trasformazione della
First Division in Premiere League (1992), si impone, in vista anche dell’organizzazione
degli europei ‘96, per i quali il governo offre grossi finanziamenti alle
società - in Inghilterra sono gli stessi clubs ad essere tradizionalmente
proprietari degli stadi -, un modello di stadio per famiglie, luogo di
intrattenimento totale in cui la partita non è che uno dei tanti
svaghi di cui si può usufruire. Ecco allora la
costruzione degli spazi vip molto accurati e sofisticati, dove si è
in pochi, si sta comodissimi e si paga tanto. Ecco tutti gli
altri settori intermedi che diventano più confortevoli e più
cari: ognuno ha la sua poltroncina numerata che può lasciare anche
vuota per usufruire di uno dei numerosi bar o ristoranti dello stadio o
di uno dei vari punti vendita che offrono le ultime novità in fatto
di gadgets. Ed ecco, soprattutto,
le ends (curve) e le terraces (gradinate), prima piene di persone che con
entusiasmo cantavano, ballavano ed incitavano la squadra ed ora sottoposte
a strettissimi vincoli: non ci si può più alzare dal seggiolino
pena l’intervento della sicurezza, non ci si può più rivolgere
all’arbitro (neanche in caso di contestazioni clamorose) pena l’accusa
di istigazione alla violenza; tutti seduti, tutti composti e, soprattutto,
tutti disponibili a pagare un biglietto più caro di prima. E’ certamente un
clima molto diverso quello che si respira ora negli stadi inglesi; il target
dei fruitori sta velocemente cambiando: è senz’altro il ceto medio
ad affollare maggiormente gli spalti, mentre il ceto più popolare
o anche coloro che consideravano andare alla partita una festa in cui essere
protagonisti (e non necessariamente per le risse, ma per il calore, l’entusiasmo,
la partecipazione) si sentono messi in un angolo: il calcio è diventato
per loro un “divertimento” troppo costoso, oppure talmente privo delle
sue caratteristiche essenziali da non essere più considerato degno
di interesse. Infatti, i prezzi
dei biglietti, soprattutto quelli più popolari, hanno subito, negli
ultimi anni aumenti vertiginosi, tanto da arrivare a superare i prezzi
dei biglietti italiani che vantavano, ormai da molti anni, il primato in
Europa. E certo le ragioni del forte aumento dei prezzi più popolari
- una media di circa 33.000 lire nella stagione 1996/97 contro le 30.000
circa in Italia - sono da ricercarsi nella minor capienza dei nuovi
stadi ristrutturati che hanno sostituito tutti i posti in piedi con posti
a sedere. Sono state, però, anche ragioni di mercato dettate dalla
volontà da parte del club, di portare allo stadio un tipo di pubblico
più disposto a spendere per tutto l’insieme di servizi collaterali
che fanno da cornice all’evento calcistico (vendita merchandising, ristoranti,
pubs et). Questo risultato si è ottenuto da un lato con una politica
dei prezzi più alti e con l’allargamento del settore destinato ai
vip, dall’altro con l’introduzione di agevolazioni speciali nei confronti
di un certo tipo di pubblico (le famiglie) che possono portare potenzialmente
più soldi nelle casse del club. Anche gli altri
paesi europei stanno percorrendo la strada indicata dall’Inghilterra; e
non è un caso che sia l’organizzazione di una competizione internazionale
a far da catalizzatore di tutti i cambiamenti: per l’Italia lo sono stati
i mondiali del ‘90, per l’Inghilterra gli europei del ‘96 e per la Germania
ci sono in ballo i mondiali del 2006. Anche in Germania,
negli ultimi anni si è provveduto ad una ristrutturazione di molti
stadi che ha avuto ripercussioni anche sul costo dei biglietti più
popolari, aumentati di circa il 20% in soli due anni. Ed anche lì,
la tendenza è quella di uno “stadio totale”, in grado di offrire
una vasta gamma di servizi e, per disposizione della FIFA fatta propria
dalla DFB (Federazione calcistica tedesca) di sostituire i posti in piedi
con posti a sedere. Certo contro questa tendenza in Germania si è
registrata, ed è tuttora in corso, una decisa sollevazione dei tifosi,
soprattutto quelli riuniti nel BAFF (lega dei tifosi di calcio attivi)
e nei vari Fanprojekte (progetti sui tifosi). Ma il modello che si impone
è, comunque, quello che ha trovato completa realizzazione nella
ristrutturazione dello stadio di Brema. Vale la pena fornire una descrizione
più dettagliata, per avere un’idea più precisa di quale sarà,
con ogni probabilità, il modello di stadio del Terzo Millenio. Ecco come questo
stadio appare al visitatore: il rettilineo della tribuna è interamente
occupato da file di confortevoli poltroncine che vanno diradandosi verso
il centro per fare posto ad una decina di palchetti vip posti nella parte
superiore della tribuna. A questi palchetti, separati dall’esterno da una
splendida vetrata, si accede dall’interno dello stadio percorrendo un corridoio
parallelo alla tribuna che si allarga formando delle confortevoli salette
bar, con teleschermi che trasmettono in diretta la partita in corso allo
stadio, nelle quali sono esposti i cimeli del grande Werder (le scarpette
di Rudi Voeller, le vecchie casacche della società etc.). Dal corridoio
una serie di porte conduce nei palchetti che costano dai 30 ai 50 milioni
a stagione. Il palchetto risulta
molto comodo; vi possono trovare posto quattro o cinque persone, vi sono
delle belle poltrone, un tavolino, uno schermo dove rivedere al rallenty
le azioni, e si può ordinare al bar un tee o al ristorante direttamente
da mangiare. Di solito questi palchi possono essere affittati o a personalità
o a ditte che vogliono far passare un bel pomeriggio ad un loro cliente
particolarmente importante (raramente, si mormora, ci sono state richieste
in tal senso da operai impiegati ed infermieri) Il resto dello
stadio risulta tutto occcupato dai posti a sedere: così la curva
Ovest, dove di solito sono collocati i tifosi ospiti, così i distinti.
La curva Est mantiene, invece, un settore riservato ai tifosi che vogliono
stare in piedi (a causa, o meglio grazie ad una estenuante battaglia per
il mantenimento di alcuni posti in piedi che i tifosi insieme al Fanprojekt
locale hanno condotto nelle ultime stagioni ). Rispetto a prima della ristrutturazione,
il settore con posti in piedi è però ridotto al solo primo
anello, costringendo gli spettatori ad essere poi divisi fila per fila
da strutture di metallo che hanno incorporati dei seggiolini estraibili
che vengono utilizzati, secondo i severi dettami FIFA ed UEFA, in tutte
le partite internazionali. Il secondo anello è sacrificato sull’altare
di una presunta sicurezza ed è dotato esclusivamente di posti a
sedere che, naturalmente, costano di più. Ma la cosa più
interessante, il parto della grande imprenditoria calcistica è al
centro, tra primo e secondo anello, nel luogo di congiunzione tra settore
alto e basso della curva. Per permettere una maggior socializzazione tra
i due settori è stata inserita una bellissima vetrata che prende
la lunghezza dell’intera curva. Dietro la vetrata cosa c’è? Basta
tornare al corridoio della tribuna vip per scoprirlo. Si percorre fino
in fondo il corridoio della tribuna fino ad arrivare all’angolo con la
curva. Da lì si entra in un grande e raffinato locale che offre
deliziosi spuntini, bevande profumate per i propri clienti. Si chiama sala
Business ed ha circa settecento posti a sedere. Da questa sala si può
sbirciare un po’ di partita attraverso la vetrata di cui si diceva prima,
ma è forse più facile discutere amabilmente in compagnia
e dare qualche occhiata ai vari monitor che contornano la sala. Se proprio
volete vedere dal vivo la partita allora per la modica somma di 100.000
Lire potete strappare un biglietto per stare comodamente seduti in una
poltrona da cinema (larghezza 80 cm.), guardare attraverso l’enorme vetrata
di cui prima e cogliere così, in prima fila (come diceva uno spot
per promuovere il canone RAI) sia le fatiche e le belle azioni dei vostri
beniamini che l’esotismo di quei pittoreschi tifosi (un po’ troppo
naif, per la verità) che si infiammano per un’azione, e poi urlano,
saltano, sventolano le bandiere e le sciarpe: un’emozione unica!. Per completezza
d’informazioni ricordiamo, sotto il settore vip il ristorante Villa Verde
che offre un buffett (caldo o freddo a scelta) alla modica cifra di 50.000
Lire per gli abbonati, e il Werder Point sotto il settore dei distinti
che vende tutti i gadgets possibili ed inimmaginabili. A differenza degli
stadi inglesi, dove entrando si ha davvero l’impressione di entrare in
un mondo dove tutto appartiene al club, in Germania, paese di forte e radicata
cultura sociale, anche in considerazione del fatto che lo stadio rimane
proprietà dei comuni, esso conserva, anche nella nuova ristrutturazione,
i segni della sua originaria funzione pubblica. Così, nello
stadio di Brema ha trovato posto anche il centro di riabilitazione accessibile
a tutti, il Fanprojekt locale (tra i più organizzati ed attivi di
tutta la Germania) e la piscina comunale; lo stadio poi è a disposizione
di molte rappresentanze scolastiche di atletica leggera per gli allenamenti. La ristrutturazione
degli stadi italiani ha avuto corso nella seconda metà degli anni
‘80 e rispondeva alla necessità di modernizzare e rendere più
sicuri gli impianti in previsione soprattutto dello svolgimento dei mondiali
di calcio del ‘90. In quegli anni il calcio in Italia stava vivendo una
grossa accelerazione con l’ingresso in scena della tv commerciale e con
l’avanzare delle nuove strategie commerciali connesse al calcio ed operate
soprattutti da Berlusconi. A queste strategie non apparteneva ancora l’idea
di stadio “da famiglia”, dotato di ogni comfort e servizio. A condizionare
la ristrutturazione degli stadi è stata, quindi, soprattutto, la
necessità di garantire la sicurezza e di sostituire strutture ormai
vecchie e poco affidabili. I nuovi stadi eliminano
i posti in piedi sostituendoli con posti a sedere in ogni settore aderendo
così alle recenti direttive FIFA che prevedono, per le gare internazionali,
solo posti a sedere. Nelle curve però
questi nuovi posti a sedere sono risultati ampiamente inutilizzati, ed
è ancora abitudine comune assistere alle partite in piedi (certo,
in caso di emergenza i seggiolini installati possono anche risultare pericolosi
ed intralciare la fuga dalle gradinate). Contemporaneamente
all’eliminazione dei posti a sedere ed alla conseguente riduzione dei posti
popolari nelle curve, sono aumentati i prezzi dei biglietti, già
molto alti in Italia rispetto agli altri paesi europei. Si è passati
così da una media di costo del biglietto a partita, per i posti
più popolari, di 15.702 lire nella stagione 1986/87 ad una media
di 27.123 lire del 1990/91, cioè quasi ad un raddoppio dei prezzi
in quattro anni. Certo gli aumenti
dei biglietti sono da imputare anche agli altissimi ingaggi dei giocatori
che mai prima di allora venivano pagati così tanto. Per gli stadi italiani
però, a pochi anni dalla loro ristrutturazione, sembra aprirsi una
nuova fase. Nei primi mesi del ‘97, in seguito ad alcuni episodi di violenza
ultrà, il Vicepresidente del Consiglio del Governo dell’Ulivo, onorevole
Veltroni, con delega allo sport, ha riproposto all’attenzione dei media
come antidoto efficacissimo contro la violenza, l’idea dello stadio per
famiglie; uno stadio gestito direttamente dalle società e capace
di offrire spettacoli molteplici (non solo la partita) ed i più
svariati servizi. E’ il modello inglese ad ispirare direttamente Veltroni
che lo elogia e lo cita come unica soluzione possibile contro la violenza
negli stadi . Sulla stessa linea, ma per diversi motivi, sono i presidenti
delle società di calcio che sempre più vorrebbero privatizzare
gli stadi (per ora generalmente patrimonio pubblico, dei comuni) per ristrutturarli
e gestirli direttamente come in Inghilterra . E’ il caso, ad esempio, del
Parma che vorrebbe comprare il Tardini, lo stadio della citttà;
del Milan e dell’Inter che hanno preso in gestione lo stadio Meazza; del
Bologna che, da maggio 1998, gestisce direttamente il Dallara ed ha in
programma una ristrutturazione dello stadio per far posto a ristoranti,
bar e gallerie commerciali; del Venezia Calcio che, in occasione del suo
ritorno in Serie A, ha cominciato i lavori per la costruzione del suo stadio
privato. Per ora l’unico
stadio privato italiano è il Giglio della Reggiana. Uno stadio costato
25 miliardi che si pone però ancora nel solco dei tradizionali modelli
di stadio, non recependo quelle trasformazioni strutturali legate soprattutto
ad un suo sfruttamento a fini commerciali. Certamente, nei
prossimi anni, ci dobbiamo aspettare delle trasformazioni significative
degli stadi italiani, per soddisfare la nuova linea imprenditoriale
delle società italiane e per andare incontro alle richieste di una
fetta di pubblico - quello, per intenderci, da tribuna - che vuole soggiornare
allo stadio in modo più confortevole (palchetti vip, comode poltroncine
et.); auspischiamo peròche, nelle ristrutturazioni non vengano seguiti
pedissequamente i modelli inglesi o l’esempio del Brema, perchè
questo comporterebbe non rispettare le esigenze di chi affolla gli altri
settori dello stadio (i distinti e le curve) e potrebbe portare, nel lungo
periodo vari danni alle stesse società. Infatti, con la
ristrutturazione, le cui linee direttrici vanno considerate nel nuovo scenario
aperto dalla tv, e la conseguente diminuzione dei posti disponibili, soprattutto
quelli popolari, e i relativi alti costi di gestione che contribuiscono
ad un sensibile aumento del costo dei biglietti, anche in Italia verrebbe
a mutare sensibilmente, certo in senso classista, la fisionomia del pubblico
abituale frequentatore degli stadi. La stessa trasformazione
dello stadio in luogo dalle tante attrazioni, a metà tra il parco
divertimenti e i moderni centri commerciali, finisce per cancellare lo
stadio come luogo di socialità privilegiato in cui, in nome di un
valore condiviso, la fede nei colori della squadra, si ritrovano e si incontrano
persone di cultura, estrazione, formazione diverse, unite in modo altrove
impensabile da un legame profondo con la squadra che in quel momento, e
in quel luogo, rappresenta l’intera comunità. Lo stadio, poi,
è tradizionalmente uno dei pochi luoghi, in una società che
vive di valori riflessi e indotti e che delega la partecipazione, in cui
il tifoso si propone come parte integrante dello spettacolo (lo spettacolo
della curva che è elemento essenziale dell’evento calcistico), come
protagonista di un rito condiviso e partecipato. Ridisegnando la
struttura degli stadi e ridefinendo il rapporto con i propri spettatori,
il club rischia (in Inghilterra sta già succedendo) di allontanare
il tifoso attivo e di trasformare lo stadio in luogo neutro in cui gli
spettatori usufruiscono passivamente del servizio partita e degli altri
servizi offerti: finché la qualità dello spettacolo resterà
alta, gli spettatori affolleranno gli spalti, quando questa dovesse venire
meno, allora cambieranno stadio così come, in regime di libero mercato,
cambierebbero il ristorante non più in grado di offrire cibo di
qualità e prezzi competitivi. Nei frangenti di
difficoltà, quindi, il club - specialmente quello più piccolo,
meno capace di offrire alti ingaggi e di assicurarsi i migliori giocatori
- non potrebbe più aspettarsi il calore dello zoccolo duro, di quei
tifosi sfegatati per i quali la fede nella squadra non dipende dalle vittorie
e dalla posizione in classifica: quei tifosi sono destinati a sparire. Infatti,
continuando ad applicare in modo acritico il modello di ristrutturazione
degli stadi sopra delineato, si finisce per cancellare lo stadio come luogo
identitario di una comunità e di una città, per trasformarlo
in spazio neutro incapace di produrre valori riconoscibili.