INTERVISTA DE IL MESSAGGERO A JONATHAN ZEBINA
25 ottobre 2002
ROMA - «Il giorno della presentazione, ad agosto, mi hanno tirato due banane. Non se ne è accorto nessuno, ma è successo. Capita anche questo...». 
Zebina sorride, quasi timidamente, raccontando uno dei tanti episodi che lo hanno riguardato da quando è alla Roma. Non si libera di un peso, né di un segreto. A quelle due banane ha dato importanza zero. «Perché poi Roma non è una città più razzista di altre. E’ razzista come le altre. Il colore della mia pelle, forse sarò stato fortunato, non mi ha mai messo in situazioni imbarazzanti. E i tifosi della Roma, almeno per quello, non mi hanno mai insultato». 
Le due banane non offendono Jonathan, che se mai si offende per qualcosa di molto più genuino. «Al terzo anno non ho mai ricevuto un applauso. E’ la cosa che più mi manca». Non è un bluff, il suo. «Perché la sera di Roma-Udinese, dopo un mio passaggio a Totti, ho sentito un rumore per me strano. Applausi. Non ci credevo nemmeno. Erano applausi, a me, che quella sera avevo giocato in modo normale. A Empoli altri applausi. Ho avuto la conferma, nelle ultime partite di campionato, che qualcosa era cambiato». 
«So perché qualcosa è cambiato», aggiunge in fretta. «So perché e quando». Zebina racconta. Con gli altri si è arrabbiato soltanto una volta. Di solito lo fa con se stesso. «Perché da me pretendo tantissimo e mi rendo conto se faccio un errore, due o tre. Ma in quel caso ho detto basta a chi mi indicava come l’unico colpevole di tutto. Delle sconfitte, del gioco che non piace, dei troppi gol subiti. Ho detto basta. Basta di essere colpevole a vita». 
Giusto un mese fa, fu aggredito a Trigoria. «E ho avuto un attimo di follia, sono sceso dall’auto. Non ce la facevo più a sopportare. Ho reagito. A chi mi offendeva ho voluto urlare in faccia tutta la mia rabbia: ’Se non mi volete, me ne vado. Faccio subito la valigia. Non sono io l’unico colpevole, basta’. Mi sono sfogato, sbagliando. E sono finito sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo per un episodio molto meno grave di quanto potesse sembrare dalle immagini». Lui, in mezzo alla gente, spinto in macchina dai poliziotti. In primo piano un manganello, proprio accanto alla faccia semimpaurita. «Immagini forti e basta. Lo dissi anche a mio papà, che non sapeva niente. Era a Parigi. L’ho avvertito per dirgli di non preoccuparsi. Non legge i giornali, ma l’episodio aveva colpito tutti. La polizia è intervenuta per aiutarmi, in modo strano ma efficace. In realtà non è successo niente. O meglio. Se è successo, qualcosa è cambiato in positivo. Tutti, dopo quel giorno, a cominciare dai tifosi, si sono resi conto di essere andati un po’ oltre. Meno insulti e fischi, meno critiche sui giornali. Già, i giornali. Io in Italia penso di essere stato sempre sottovalutato. Non sono così scarso». 
Torna indietro, alla prima stagione. «Lo scudetto, appena arrivato a Roma, non me lo sono goduto. Ho avuto tutto, troppo in fretta. Nessuno in quell’annata ha apprezzato le mie prove. Non ho mai sentito dire che ero un buon giocatore. La mia difficoltà maggiore è stata la grande responsabilità di dover prendere il posto di Aldair, non uno qualsiasi. Avevo sempre gli occhi puntati addosso, il paragone era automatico ad ogni giocata. Sono partito con l’handicap. Io non avevo un nome, gli altri sì, erano tutti nazionali. E per un difensore, in questo senso, tutto è ancora più difficile: i miei errori diventavano più evidenti. Eppure è stata una stagione fantastica, se tornassi indietro me lo godrei di più, anche perché ora so che è molto, molto difficile vincere a Roma. E ripenso anche al giorno di Roma-Parma: mi sono commosso quando sentii Aldair dire che avrebbe voluto giocare quella partita più di ogni altra». 
«So che, con calma, toccherà a me cambiare il corso della mia vita in giallorosso. Io lavoro, do il massimo, se mi guardo allo specchio sarò sempre a posto con la coscienza. In campo non faccio mai il furbo, non alzo la mano chiamando il fuorigioco. Mi espongo, tento un passaggio difficile per dare un senso al nostro gioco. Adesso ho capito che a volte è meglio buttar via la palla... Sono il primo a pretendere di più da Zebina, so quando sbaglio, ma...». Qui diventa quasi triste: «La cosa che mi ha dato molto fastidio è di non aver mai sentito dire che la Roma ha vinto una partita anche per merito mio. Solo il contrario, per un errore e una sconfitta. Sempre e solo colpa mia. Per molto tempo mi sono aspettato un po’ di riconoscenza, un applauso. Che qualcuno parlasse bene di me. Pur non capendo, ho accettato. Perché mi giravo e vedevo Samuel, Emerson e Cafu e mi chiedevo: perché sempre a me la colpa e mai agli altri? Il fastidio è aumentato, poi. E dopo essere stato sempre gentile, ho detto basta. E sono sceso dall’auto. Non mi andava più di essere gentile». 
Dalla sua auto è sceso. Qualche giorno prima, su un’altra, quella dell’amico Candela, è salito. Un gran botto, sempre in prima pagina. In meno di una settimana, due volte uomo copertina: «La storia della Ferrari è stata gestita male. Da me, da altri. Ma lì avevo torto e basta. All’alba, dopo una sconfitta pesante, tre a zero all’Olimpico. Anche se non guidavo, anche se ero andato soltanto a cena, facendo tardi. Ma ho fatto tardi anche dopo il pari con il Genk, mi sono addormentato dopo le quattro. Stavo, però, a casa mia. Non ho cercato giustificazioni, era inutile». Non svicola su quella storia, perché Jonathan la usa per far capire come sulle notti di un giocatore si può romanzare a volontà. «Io, a Roma, sarò andato in discoteca due o tre volte. Non mi piace andarci qui. Tutti ti guardano. Se hai un bicchiere d’acqua in mano è vodka. Non mi diverto. Vado in discoteca quando sono in Francia, quando sto lontano da Roma. Perché devo farmi vedere in discoteca a Roma, per alimentare altre chiacchiere? Tra l’altro io qui vivo con i miei genitori, faccio vita sana». 
A Empoli, in tribuna, i genitori di Corradi, giocatore della Lazio e amico di Jonathan dai tempi di Cagliari. «A Roma ci siamo visti una volta, quando è arrivato. Non gli voglio creare problemi. E’ inutile forzare una cosa che la gente qui non accetta, una cosa che è soltanto romana. Noi siamo professionisti e dobbiamo rispettare le due tifoserie. Frequentarsi diventerebbe una provocazione. Poi possiamo vederci in vacanza, a Natale. Magari a Parigi. Qui creerebbe danni ad entrambi». Ha in mente altri episodi di vita quotidiana. «Nel periodo negativo nemmeno uscivo per andare a comprare il pane. Evitavo di incontrare chi mi criticava a prescindere». Fa vedere un cappello. «Giro con questo per nascondermi, anche se poi mi riconoscono lo stesso. Ho voglia di camminare tranquillo e so che è difficile. Esco poco, purtroppo». Continua: «Una volta mi ha chiamato un uomo della nettezza urbana. Sono andato verso di lui. Mi ha urlato: ’Ogni gol è colpa tua!’». Sorride e alza le spalle. «Ma dovevo andarci. Perché mi sento fortunato. E capisco i tifosi. C’è chi spende un paio di milioni l’anno per venire allo stadio. Mi metto spesso al posto del tifoso, anch’io potevo andare in curva. Non è normale andare a casa scortati. Ma so che qui ho di fronte gente vera e mi va bene così». 
Il popolo giallorosso forse non sa quanto Zebina sia legato a Roma e alla Roma. «Ho negli occhi il Circo Massimo. Io c’ero, l’emozione è stata incredibile. Vesto la maglia di una squadra odiata in tutta Italia: più sono i nemici e più sei fiero di indossarla. Non ne metterei mai un’altra, in Italia, dopo questa. La Juve, il Milan, l’Inter hanno sempre vinto: loro hanno il potere, noi no. Mai potrei dire che la Lazio è una squadra più simpatica delle tre grandi storiche, perché la gente non accetterebbe. E’ la realtà e so che cosa è il rispetto. Ma non mi piacerebbe giocare per Juve, Inter e Milan. Per questo vorrei rivincere un altro scudetto. Qui è bello perché è duro tutto. Pure farsi apprezzare. Guardate Tommasi o anche lo stesso Totti. Ed è duro vincere». 
C’è un avversario che proprio non sopporta. Gli ha mollato uno schiaffone, dopo essere stato preso in giro, nell’ultimo Inter-Roma: «Con Recoba non voglio far pace. I campioni veri sono quelli che ti rispettano, da Del Piero a Vieri. Recoba no. Mi ha offeso, anche se aveva fatto due gol. Ha voluto fare il fenomeno. Ma ci rivedremo, in campo. Io sono sempre sereno. Non ero a mio agio nei periodi brutti, ma nemmeno in difficoltà. E, tra le tante fortune, il rendimento non ha mai avuto a che fare con delusioni affettive. Da qualche tempo ho interrotto un legame importante, ma non ha pesato». Sensi ha detto: «Se Zebina gioca sempre così, come a Empoli, abbiamo la difesa più forte del torneo». Jonathan strizza l’occhio sinistro: «Ho anche questa responsabilità, dato che gli altri due sono campioni come Samuel e Panucci. Ci mancava anche questa». Sospira e tira fuori tre motivi per dire come mai non è andato via da Roma: «Primo: per non perdere la sfida con me stesso, cioè di diventare grande qui a Roma; secondo: per non darla vinta alla gente, che mi discute su tutto; terzo: per non far perdere la scommessa a Capello e Baldini, che da sempre puntano su Zebina. Se non ci fossero stati loro due, sarei già altrove». 


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