Francesco
Totti, decimo nel Pallone d'Oro, escluso dalla lista dei migliori 30 per
il giocatore Fifa dell'anno. Hai trovato ingiusta questa cosa? «Direi
una bugia se dicessi che questo tipo di trofei non mi interessano. Come
praticamente tutti i giocatori, anche io sono sensibile a questi riconoscimenti
internazionali. Di sicuro non ho gioito sapendo di non far parte della
selezione del Fifa World Player (sorride maliziosamente). Ma alla fine
non c'è problema, vorrà dire che nel 2007 ci sono stati 30
giocatori migliori di me... Personalmente credo, malgrado questo, di aver
disputato una buona annata, una delle migliori della mia carriera. Ho alzato
due trofei con il mio club nel giro di pochi mesi, Coppa Italia e Supercoppa,
e un riconoscimento individuale almeno l'ho avuto, la Scarpa d'Oro. Sono
soddisfatto del mio 2007». Dopo
Maradona un vero numero 10 non aveva mai vinto il titolo di capocannoniere
in Italia. E' un caso? «Sinceramente
credo che nel passato avrei già potuto vincerlo, anche se la concorrenza
è sempre stata difficile perché in Italia hanno giocato grandi attaccanti.
Sicuramente il fatto di aver cambiato la mia posizione in campo mi ha aiutato». Come
sei diventato centravanti? «E'
dipeso da una serie di circostanze. Gli altri giocatori in quel ruolo si
erano infortunati e il nostro allenatore, prima di una partita a Genova contro
la Sampdoria, mi ha chiesto se me la sentivo di giocare più avanti
rispetto al solito. Ho dato immediatamente la mia disponibilità.
In fondo, mica
mi stava chiedendo di fare il terzino destro! L'esperienza è stata
subito positiva, si è ripetuta, finché non ho cominciato
ad occupare sistematicamente questa posizione. E devo dire che la cosa
mi è piaciuta. Le statistiche, inoltre, dimostrano che è
stata una scelta giusta, anche se sorprendente». Perché
sorprendente? «In
generale, più un giocatore invecchia, più tende ad allontanarsi
dall'area di rigore, per allungare la carriera e a diventare un rifinitore.
A me è accaduto
esattamente il contrario. E, lo ripeto, la cosa non mi ha creato alcun
problema, perché ho sempre accettato le soluzioni che i miei allenatori
mi hanno proposto per il bene della squadra. Inoltre è stata proprio
la squadra che mi ha permesso di riuscire bene da centravanti: tutti i
gol che ho segnato sono il frutto di un lavoro enorme da parte dei miei
compagni». La
maggioranza degli addetti ai lavori pensano che il miglior Totti sia stato
l'evoluzione del trequartista. Un "nove e mezzo". «Ci
sono due Totti molto differenti. Il Totti trequartista è stato un
giocatore, se volete, più divertente, più spettacolare. Anche
adesso, in alcuni momenti della partita, trovo più divertente giocare
in questa posizione, perché un attaccante tocca meno palloni. Se
devo trovare un lato negativo in questa mia evoluzione è proprio
questo, il numero di palloni giocati. Ma alla fine prevale il piacere di
giocare in attacco e la soddisfazione dei gol segnati. E non si può
dimenticare una cosa: si possono fare passaggi decisivi o segnare, ma quello
che conta alla fine è il numero dei gol realizzati. Prima provavo
quasi più soddisfazione a offrire palle-gol piuttosto che a segnare.
Ma anche il mio modo di pensare è cambiato». Hai
dovuto cambiare il tuo modo di stare in campo? «Da
centravanti devo essere troppo concentrato su tutti i palloni che mi arrivano,
perché il mio compito è finalizzare l'azione. Il risultato
delle partite dipende da questo. L'attaccante sta lì per segnare,
non per divertire la platea. Questa evoluzione infatti mi ha dato ancora
più responsabilità, dato che sono un attaccante un po' particolare,
non sto solo fermo ad attendere il pallone, ma mi muovo molto». Sei
un attaccante singolare, che non esita a uscire dall'area di rigore per
partecipare al gioco e servire i compagni. Ti consideri come un vero attaccante
o pensi di aver inventato un ruolo nuovo? «Un
po' tutte e due le cose. Lavoro per essere efficace nella posizione di
attaccante e ho dimostrato che segnare mi riesce piuttosto bene. Ma sono anche
cosciente di essere un centravanti differente dagli altri. Di questo devo
ringraziare Luciano Spalletti, che ha scelto di usarmi in maniera nuova ma
senza snaturare le mie caratteristiche. Là davanti tutti ci muoviamo
molto per evitare di dare dei punti di riferimento agli avversari. Questo ruolo
mi piace e penso di mantenerlo fino al termine della mia carriera». Recentemente
l'ex allenatore della Roma Zeman ha sottolineato che il tuo grave infortunio
del febbraio 2006 è stato decisivo per il cambiamento di ruolo.
Sei d'accordo? «No,
la mia evoluzione dipende da ciò di cui aveva bisogno la squadra.
La sola certezza è che quell'infortunio ha rischiato di porre fine
alla mia carriera.
E che, sotto certi aspetti, ha rappresentato una svolta. Quando Marcello
Lippi è venuto a visitarmi all'ospedale per dirmi che contava su
di me
per il Mondiale, io mi sono posto quell'obiettivo in testa. In quel momento
ho cominciato a vedere le cose diversamente. Se volevo tornare a giocare,
dovevo fare più sforzi e più sacrifici di quelli che avrei
mai pensato di fare. E' stato il mio primo infortunio grave e ho capito
che avrei
rischiato di perdere tutto se non mi fossi adeguato». E
ti sei adeguato... «Con
il professor Mariani, Vito Scala e Mario Brozzi noi abbiamo fatto un lavoro
incredibile, come probabilmente in molti non mi credevano capace. Ho potuto
giocare di nuovo, già quello è stato come vincere una Coppa
del Mondo». Tu
sei un attaccante particolare in una squadra che possiede uno stile particolare.
Si dice spesso che la Roma è più bella e dinamica che efficace. Avete
un gioco troppo dispendioso? «I
miei compagni ed io non ci risparmiamo. Spalletti mi chiede molto movimento.
Vuole anche che gli esterni giochino molto alti e i centrocampisti moltiplichino
le incursioni nella metà campo avversaria. Per questo bisogna essere
a posto dal punto di vista atletico. Non sono d'accordo con quelli che
pensano che questo non porta a niente. Prendete il Milan di Sacchi alla
fine degli anni 80: fisicamente spendeva molto e spingevano senza sosta.
Questo non gli ha impedito di vincere ovunque. Questa squadra possiede
i campioni, la mentalità e la concentrazione. Per vincere bisogna
sfiorare la perfezione. Alla Roma abbiamo qualità e volontà.
Io sono sempre convinto che si possono vincere partite giocando un bel
calcio». Una
parola su Mexes e Giuly, tuoi compagni francesi. «Sono
due grandi campioni e due personalità importanti nel nostro spogliatoio». Quando
riprenderà il campionato quali saranno le vostre ambizioni? «L'Inter
ha un bel vantaggio su di noi, sette punti, e resta favorita per il titolo.
A Roma noi siamo sempre convinti di continuare a lottare fino in fondo
per lo scudetto». Negli
ottavi di finale di Champions, affronterete il Real Madrid. «Sono
contento di affrontare il Real. Con loro ho dei bei ricordi, come la vittoria
al Bernabeu del 2002. La squadra di oggi è molto forte, però
resto convinto
che potremo dire la nostra». Qual
è la squadra che ti ha impressionato maggiormente nel corso della
prima fase della competizione? «L'Arsenal
dei giovani. Quando una squadra è formata principalmente da giocatori
con poca esperienza, spesso ci sono delle difficoltà in campo internazionale.
Non è quello il caso. I Gunners sono in corsa sia in Europa sia
in Premier League. Questo fa piacere perché significa che investire
sui giovani
può pagare. Quando ti ritrovi dei giocatori come Fabregas, De Rossi
e Aquilani è la dimostrazione che non bisogna investire 200 milioni
di euro per
essere competitivi». La
Roma è pronta per vincere la Champions? «Sulla
carta ci sono squadre più attrezzate di noi. Ma noi siamo ambiziosi
e quando partecipiamo ad una competizione lo facciamo con la volontà
di vincerla.
Il nostro gruppo è solido e possiamo superare qualsiasi ostacolo». La
finale del 2009 si giocherà a Roma. «Quando
ho saputo che l'Olimpico sarebbe stato il teatro, l'anno prossimo, di questo
evento, ho subito detto che mi sarebbe piaciuto affrontare il Liverpool
per un rivincita della finale del 1984, quella persa in casa ai rigori.
Non si tratta di avere una certezza, ma di destino. Vedrete». Come
tutti i romani, vivi tutto con molta passione. Insieme a te c'è
un bel gruppo di romani, la Roma è la squadra di serie A che ha
la più grande rappresentanza
di giocatori della città. Non è un peso supplementare? «Per
niente. Io lo considero come una cosa di cui essere fieri, per portare
ovunque il nome della mia città e del mio club». Non
è troppo difficile essere Francesco Totti a Roma? «Sono
circa dieci anni che non metto piede nel centro della città, e quando
l'ho fatto è stato di notte. E' il prezzo da pagare per la gloria
e per il mestiere
di calciatore. Con i suoi aspetti positivi e le sue controindicazioni». Non
hai mai avuto la tentazione di partire? «La
possibilità si è presentata più di una volta. Ci sono
stati due momenti nella mia carriera in cui non mi trovavo troppo bene
con i miei dirigenti e con
i tifosi. Per esempio all'epoca di Carlos Bianchi, quando il tecnico argentino
disse al presidente "O fate partire Totti o io me ne vado". Bianchi
voleva che la Roma mi prestasse alla Sampdoria e io mi ero quasi convinto.
Poi il tecnico è stato esonerato. L'altro momento difficile è stato
poco prima dell'arrivo di Fabio Capello, alla fine degli Anni 90. Una parte
dei tifosi mi criticava, mi rimproverava di non essere all'altezza, di non
preoccuparmi della squadra. Dopo qualche settimana tutto è passato
e ho compreso che non lascerò mai la Roma». Hai
lasciato la Nazionale dopo la vittoria al Mondiale. La causa sono le critiche
che ti sono piovute addosso perché hai giocato pur non essendo in forma? «No,
ho deciso di non giocare più in Nazionale perché mi sono
reso conto che dopo l'infortunio alla caviglia, il mio fisico non poteva
più sopportare un calendario
così impegnativo. Devo imparare a gestire il mio fisico. Le critiche
ricevute durante la Coppa del Mondo mi hanno ferito non tanto come giocatore,
quanto come uomo. Dopo tutti i sacrifici fatti, e i rischi presi per essere
pronto a giocare, io mi attendevo almeno un incoraggiamento da parte
di certi giornalisti piuttosto che attacchi a ripetizione... Dopotutto
certi giudizi finiscono per essere portati via dal vento». Che
giudizio hai sul caso Zidane-Materazzi? Tu sei stato linciato mediaticamente
dopo lo sputo in faccia a Poulsen agli Europei del 2004. «Questa
è una bella domanda. Nel caso di Zidane, malgrado lui abbia preso
a testate Marco, tutta la Francia lo ha difeso sostenendo che era stato provocato.
Ma anche io ero stato provocato da parte di un giocatore scorretto senza
per questo evitare di essere massacrato in Italia. Qualche tempo
dopo Poulsen ha riservato lo stesso trattamento a Kakà, cercando
la sua reazione e Kakà lo ha immediatamente catalogato come provocatore.
Con me non era successo».