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Millwall Enough said |
Going to the stadium |
Ognuno di noi ha almeno una cosa che gli psicanalisti definiscono “feticcio”, una passione seriale verso oggetti inanimati. Chi le calze, chi i cappelli, smalti, borse, spille, oppure le scarpe. Io ho questo feticcio, da anni colleziono scarpe esclusivamente Adidas e mi occupo di sottocultura casual, oltre che essere appassionato di musica punk. La scarpa, se avesse voce, racconterebbe le nostre storie più intime. Lo capiscono per primi gli antichi romani che chiamano le proprie tragedie cothurnatae, nome dei calzari indossati dagli attori nelle figurazioni teatrali dell’epoca, usate per identificare i ruoli e le parti durante le recite. In questo articolo proverò, con minimi riferimenti storici e bibliografici, a dare una generale inquadratura dell’influenza del marchio Adidas alle sottoculture urbane (quindi principalmente punk, skinhead e b-boy) e viceversa, dal momento che, come sostenuto correttamente dal designer e co-fondatore di marchi streetwear Paolo Coppolella: “E’ un circolo vizioso/virtuoso quello tra la ‘strada’ e la moda. Si influenzano reciprocamente: il sistema moda molto più di quanto si pensi si retroalimenta di fenomeni presi dalla strada – gang/crew/bande – e li trasforma in capi di abbigliamento simbolo in tendenze popolari”. Come tutti i fenomeni sociali, anche quelli riguardanti le culture giovanili assumono una certa rilevanza a livello sociologico, poiché mossi da ragioni prevalentemente legate alla voglia di rivalsa di una minoranza sociale osteggiata nell’affermazione di particolari diritti (lavoro, casa, integrazione) da parte dello Stato. E come tutte le “bande” in rivolta contro lo Stato oppressore, si dotano di codici, linguaggi e stili identificativi di appartenenza. Come scrive in un’intervista giustamente Mauro Bonvicini (musicista e studioso delle mode ideologizzate): “una sottocultura senza apparato critico -filosofia?- è una semplice moda, mentre quando viene a mancare la dimensione estetica e si privilegia una visione del mondo che è inevitabilmente antagonista siamo di fronte a mera ideologia. La sottocultura è quindi il giusto bilanciamento di simbolismo stilistico, dinamica aggregativa e, appunto, sensibilità antagonista.” Se quello che cercate è
un articolo alla Vice ‘dimmi che scarpe indossi e
ti dirò che musica ascolti’, allora avete
sbagliato posto. Se invece vogliamo
capire insieme come mai Adidas appartiene ai
suddetti codici stilistici delle sotto culture,
forse questo articolo – senza alcuna volontà
pretenziosa di esaurire un discorso estremamente
ampio – può essere un primo spunto. C’era una volta…Le origini di Adidas risalgono al 1924, quando Adolf Dassler fondò un’azienda calzaturiera con suo fratello Rudolf, la Gebrüder Dassler Schuhfabrik. L’idea era quella di creare scarpe specifiche per lo sport, che potessero offrire il massimo comfort agli atleti e proteggerli dagli infortuni. All’inizio le bande laterali erano solo due e partivano da una necessità puramente funzionale: servivano a mantenere e sostenere la struttura della scarpa sulla zona centrale della tomaia ma divennero anche un segno distintivo dell’azienda. Per anni la ditta familiare andò bene, ma lo scoppio della II° Guerra Mondiale diede inizio ad una rivalità tra i due fratelli che avevano idee molto diverse su come relazionarsi col nascente Reich: Adolf non aveva alcuna intenzione di trasformare la sua fabbrica di calzature sportive in una per stivali da guerra per chi, da lì a breve, avrebbe calpestato l’Europa e milioni di cadaveri sul suo cammino di conquista. Rudolf invece fiutava l’affare, poter diventare i principali fornitori di calzature per il nuovo grande impero tedesco lo allettava e parecchio. Nel 1947 ognuno prese la sua strada, Rudolf fondò la nuova azienda RuDa (ribattezzata poi PUMA per via del suono più orecchiabile) e Adolf iniziò la storia dell’ Adidas il cui nome nasce proprio dall’unione del suo soprannome e cognome: Adi Dassler. Fondata la nuova azienda, Adi non poteva però più utilizzare le due strisce laterali. La soluzione fu aggiungere una terza striscia nel mezzo e dare vita alle iconiche 3 stripes. Rudolf invece le prese entrambe e le piegò in diagonale creando quello che fu il primo logo della Puma. Persino la cittadina di Herzogenaurach si divise sulla questione, e fu soprannominata “la città dei colli piegati” perché la gente guardava continuamente le scarpe calzate dagli altri per capire per chi parteggiava. I due fratelli non si riconciliarono mai e, benché siano sepolti nello stesso cimitero, le loro tombe sono agli angoli opposti del campo santo. Da quel momento in poi il successo di Adidas fu una strada in salita, costellata di piccole grandi rivoluzioni: nei primi anni, la nuova azienda si concentrò a migliorare i materiali utilizzati, la struttura del design e la ricerca di forme ergonomiche. Una delle rivoluzioni principali del marchio fu introdurre i ‘tacchetti’ nelle scarpe da calcio e i ‘chiodini’ in quelle da corsa, in entrambi i casi per aumentare il grip del piede sul terreno. Fu nel 1970, quando Adidas iniziò ad utilizzare tecnologie moderne come la gomma in EVA, che le prestazioni delle sue calzature raggiunsero l’apice e si affermarono in maniera massiccia oltre che in Europa anche nel mondo. Nel frattempo però, nei primi anni Settanta, altre aziende si facevano conoscere nel mondo ed aumentava la concorrenza nel campo del footwear, soprattutto con Onitsuka dal Giappone e la rivalità con l’azienda Puma di suo fratello, tanto da sentire la necessità di reinventare il proprio brand e creare un logo dinamico che potesse mostrare al mondo una Adidas rinnovata, diversa e all’avanguardia. È proprio in questo periodo che nasce il leggendario Trifoglio o “tres foil”. Tre foglie che si uniscono in una figura di una pianta, tagliata al centro in orizzontale con le immancabili 3 strisce a simboleggiare lo spirito olimpico: forza, lealtà, sacrificio. Il logo fu usato nel periodo 72-97 e solo nel 1991 venne affiancato dall’altro, per la linea Equipment noto come “la piramide” composto da tre spesse bande diagonali che è il principale logo con cui attualmente produce l’azienda. Le 3 Strisce hanno saputo
affermarsi in tanti contesti diversi, dallo sport
all’atletica, fino al mondo della musica, della moda
e dell’arte. Sono state adottate come simbolo per
l’identità di svariate sottoculture underground e
mainstream, e continuano a proporre design
all’avanguardia per l’era contemporanea. La
praticità, la versatilità e la flessibilità sono gli
elementi che hanno permesso al logo di adattarsi ad
ogni tipo di contesto fino a diventare un’icona
mondiale. MUSICA E ADIDASIl legame tra le due, fa strano a
dirsi se pensiamo all’immaginario di tendenza nei
concerti attuali, non appartiene storicamente alle
sottoculture skinhead e punk, ma è proprio di quelle
culture stradaiole in qualche modo legate alla
pratica sportiva: hip-hop per via del basket e dello
skate e i rudeboys per via del calcio e
dell’atletica. Non è un caso, rimanendo sul tema
estetico, che i primi punk e skinheads adottino una
moda estranea ai canoni imperanti: attraverso il
peso simbolico dato a questo aspetto da un lato si
marca anche visibilmente il confine tra “noi” e la
società che per comodità possiamo definire borghese,
e dall’altro ci si riconosce tra pari esaltando
quella sensazione di costituire un mondo a parte che
poi è alla base di ogni pulsione sottoculturale.
Adidas, come abbiamo accennato, negli anni ’70
(quindi nella Golden era del movimento skinhead e
nel periodo di esplosione del punk) era un brand più
che affermato, che occupava le pubblicità in Europa
e nel mondo, che creava abbigliamento sportivo
indossato dalla gente comune per correre o praticare
sport imitando icone mondiali; non poteva essere
usato come elemento distintivo di rottura con la
società borghese. Un terzo caso furono i Casuals il
cui rapporto col marchio a tre strisce deriva
ovviamente anche in questo caso da un legame con lo
sport e l’abbigliamento sportivo, sebbene non
praticato direttamente. ADIDAS E HIP HOPIl primo modello di scarpe ad essere adottato nelle strade in modo massiccio e diffuso, per via di un imponente operazione di marketing, fu quello delle Superstar ed avvenne in pieni anni ’80 in America. Questo iconico modello Adidas è caratterizzato da un softprotect nel tallone, spessa linguetta imbottita sul davanti, lacci enormi, l’identificativa punta in gomma rinforzata a conchiglia – da qui il soprannome shell shoe – e le 3 strisce sui fianchi. Nacque nel 1969 come scarpe da basket basse in pelle e immediatamente furono scelte dal famoso giocatore dei Lakers Kareem Abdul-Jabbar. 15 anni dopo furono l’oggetto di uno storico accordo commerciale: per la prima volta nella storia, un marchio sportivo ideatore di abbigliamento tecnico firma un contratto di sponsorizzazione non con un atleta ma bensì con una band musicale. Infatti, dopo che il gruppo Run DMC gli dedicò addirittura la canzone “My adidas” e un video in cui comparivano interamente vestiti a strisce con le Superstar ai piedi, riconoscendo il grande potenziale commerciale di questi artisti, il brand tedesco fece loro firmare un contratto da 1 milione di dollari e così i Run DMC divennero i primi ambasciatori non sportivi di una marca di attrezzatura sportiva lanciando al contempo la moda della linguetta in avanti senza stringhe: “With no shoe string in em, I did not win em”. A metà degli anni ’90 le Superstar erano così popolari che arrivarono perfino a conquistare il mondo dello skateboarding schiacciando il mito Vans ed iniziando a comparire ovunque ai piedi degli skater e rapper. E i liceali, che si potevano
atteggiare a b-boy aggiungendo i famosi fat
laces alla silhouette. Queste sneakers
rappresentavano il simbolo dell’appartenenza ad un
club, ad una nicchia esclusiva di cui tutti volevano
formarne parte, specialmente negli States. Possiamo
dire che la Adidas Superstar sia stata la prima
grande sneaker universale. ADIDAS E RUDEBOYSNell’affrontare il tema delle
subculture giovanili non ci si può non far
riferimento a uno dei casi storici tra i più
rappresentativi fra i fenomeni sociali suburbani
giovanili, quello riguardante la cultura ”Rude
Boy”, in auge in Jamaica a partire dagli anni
’50/’60 e trasferitosi nei primissimi ’70 in
Inghilterra. I rappresentanti di tale
subcultura giovanile, tendevano ad identificarsi
nelle credenziali culturali tipicamente incarnate
nella musica giamaicana (ska, rocksteady e reggae) e
nelle regole della vita di strada. Con riferimento
alla vita di strada, incentrata principalmente in
scenari malavitosi e loschi alle soglie della
povertà, i ragazzi erano principalmente spacciatori
di marijuana e/o sicari legati alla malavita. Come
sottolinea in un articolo il giornalista Mario
Giancristoforo: “l’iconografia della malavita
esercitata su questa subcultura giovanile è
rintracciabile nel classico abbigliamento da
gangster (coppola, giacca a tre bottoni elegante e
scarpe nere). A quei tempi, in Jamaica, i rude
boy tendevano a riempire le sale da ballo e a
sfidarsi tra loro in lotte a colpi di musica,
fino al degenerare totale della situazione in
sparatorie e coltellate tra gang atte liberamente a
impedire il regolare svolgimento delle serate”. I
rude emigrati in Inghilterra, che si erano insediati
sopratutto nei quartieri operai inglesi e della
periferia e che si trovarono a contatto con altre
suottoculture (Mod), appartenenti anch’esse alla
classe operaia, importarono principalmente queste
due cose: lo stile del vestire e l’attitudine
stradaiola. Rude e mod frequentavano gli stessi
ambienti e lentamente cominciarono a mescolarsi
dando vita alla subcultura Hard-Mod (versione più
estrema della cultura Mod, che ereditò dalla cultura
rude proprio influenze riguardanti il vestiario e la
cultura). In seguito, la nuova subcultura giovanile
hard-mod evolverà in ciò che sarà il movimento
skinhead. I giovani rudeboys subivano il
fascino di icone sportive e musicali che avevano
riscosso enorme successo fuori dalla piccola isola
caraibica: musicisti reggae come Robert Bob Marley
e atleti fenomenali come Lennox Miller erano i
principali prodotti per cui fosse nota nel mondo
la Jamaica, oltre la marijuana. E
musicisti ed atleti avevano in comune, oltre
all’origine caraibica, solo una cosa: le Adidas ai
piedi. “Al primo posto c’è la musica. Sopra ogni
cosa c’è la musica, per me, e niente potrà mai
superarla. Ma subito dopo c’è il calcio. Perché il
calcio è libertà”. Possiamo partire da questa
citazione di Bob Marley per far capire l’importanza
del calcio nella sua vita e di come questa sia
sfociata nella devozione verso Adidas. Il cantante
jamaicano non ha mai nascosto il suo amore questo
sport, nella quotidianità si vestiva come se fosse
sempre pronto per una partita di calcio. Moltissime
le foto che lo ritraggono mentre gioca con amici nei
campetti con questo outfit. Parallelamente,
moltissimi atleti afro-americani, alle Olimpiadi di
Messico ’68 e Monaco ’72, sfornano successi sportivi
clamorosi, abbassando record mondiali e regalando
prestazioni eccezionali per portata sportiva e
sociale (di cui il pugno chiuso di Tommie Smith dopo
il record del mondo nei 100m piani è solo un
esempio). Essere afro, in quel periodo, significava
guardare a quelle icone e tutte avevano ai piedi
scarpe Adidas, dal saltatore Bob Beamon al
velocista Melvin Pender. Adidas in quelle edizioni
dei giochi, dominava la sponsorizzazione di atleti
vincenti. I rudeboys iniziano a indossare
le uniche scarpe Adidas nere e lucide (come
imponeva l’outfit da “criminale” di strada)
prodotte all’epoca: le Adidas Samba, eleganti in
strada e comode nelle sale da ballo. ADIDAS E TERRACESIl terzo caso, ovvero quello
della cultura Casual, è enormemente più vasto ed
un’altrettanto vasta bibliografia prova a
ripercorrerne gli aspetti cruciali. Qui ci
limiteremo a raccontarne i momenti più
significativi, partendo dallo slogan identificativo
che come un mantra ricorre nella genesi di queste firm:
“Vestirsi bene, comportarsi male”. Questo ideale e
intimamente connesso stile di vita, nacque attorno
agli anni 80, in Inghilterra – principalmente tra
Liverpool, Manchester ed Aberdenn – dove il fenomeno
degli scontri tra hooligans negli anni precedenti
era dilagato al punto da raggiungere dimensioni
preoccupanti anche per il Governo centrale. Il
movimento prende piede sulle terraces
degli stadi locali, cioè sulle gradinate,
frequentate dai famigerati hooligans,
teste rasate (skinhead) e hard mod, sempre in cerca
dello scontro con la polizia o coi tifosi avversari.
Davanti alla dilagante violenza negli stadi
e fuori, la polizia corse ai ripari, spesso
arrivando ad arrestare a campione, anche in
maniera massiccia, ragazzi che portavano indosso i
colori della propria squadra e corrispondenti a
questi canoni estetici: testa rasata, cappotto crombie
ed anfibi. La quantità di foto di giovani
skinhead fermati per strada, fuori dai pub ed in
prossimità degli stadi, costretti a spogliarsi,
togliere cinture, sciarpe e cappotti, persino i
lacci ai propri boots, subire
perquisizioni personali ed essere tradotti nelle
centrali di polizia, sono innumerevoli. Gli
hooligans quindi, per non essere più facilmente
identificati e mescolarsi con gli altri tifosi così
da poter continuare a seguire la propria squadra,
cominciarono a vestirsi con i classici indumenti
“dell’uomo medio” inglese, appassionato di sport
della domenica e non di football: il maglione della
Lyle&Scott come chi pratica il golf, la felpa
Sergio Tacchini, Fila, la polo Fred Perry come chi
segue il tennis, il cappotto Millemiglia della C.P.
Company per l’automobilismo, le scarpe bianche
Diadora o Adidas come chi segue l’atletica. Nel
Regno Unito le Adidas spopolano in tutte le loro
versioni, dalle popolarissime e coloratissime
Gazelle – indossate e sfoggiate da star musicali e
sportive in ogni occasione – alle prime City Series
come Forest Hills, London ecc. mentre in Italia
spopola sugli spalti la cultura della scarpa
totalmente bianca. Un paio di sneakers
particolarmente fortunate furono le Stan Smith:
anche queste trovano la loro origine sui campi da
tennis, e sono le prime scarpe realizzate, per
questo sport, completamente in pelle. Vengono
disegnate per Robert Haillet e mantengono il nome
del tennista francese fino al 1971, anno del suo
ritiro. Nel 1973 il tennista Stanley Roger Smith e
Adolf Dassler si incontrarono fortuitamente in un
locale parigino. Da quel momento, grazie ad una
contraccambiata simpatia, inizierà la leggenda della
scarpa simbolo per eccellenza del casualismo. Così,
spostarsi dentro la metro o sui treni intercity
vestiti in questa maniera consente di muoversi tra
le città inglesi senza dare nell’occhio, sembrando
un uomo qualunque che si sposta per vedere un match
di tennis, per poi invece radunarsi con gli altri
appartenenti alla firm davanti ad un pub
nemico e cercare lo scontro coi tifosi opposti. Ad
oggi, la cultura Casuals, presenta diverse
controversie della sua essenza che, brevemente,
possono essere riassunte in tre punti: il primo è il
paradosso economico di uno stile che nasce dalla e
per la working class, ma che fa propri
elementi tipici della borghesia se non
dell’aristocrazia (come costosissime marche quali
Burberry, Aquascutum, Stone Island etc.); il secondo
è quello della commistione ed influenza
subita da uno degli sport più nobili al mondo,
senza veri e propri “supporters”, in cui
anzi è il silenzio a dominare la scena, ovvero il
tennis. Le marche indossate dai tennisti
sono le stesse che il sabato colorano gli stadi del
Regno Unito: la maglia Fila o gli indumenti Sergio
Tacchini, con il suo tipico color “bianco,
bianchissimo” à la McEnroe, vanno per la maggiore.
Il terzo e forse più importante è quello inerente
alla genesi di tutto ciò, lo scopo ultimo per cui
essere casual: con il passare degli anni, la
meticolosità dei casuals nella scelta
dell’abbigliamento trasforma la copertura in vera e
propria divisa. L’intento originario delle tifoserie
casuals, quello cioè di sfuggire agli occhi dalla
polizia, diventa già dagli anni Novanta causa
primaria del proprio riconoscimento fuori dallo
stadio, perdendo di fatto lo scopo finale del tutto. ADIDAS E PUNKIl mondo della musica e quello
della moda cambiano per sempre nell’estate del 1977.
Su entrambe le sponde dell’Atlantico, Londra e New
York vacillavano nello stesso momento sull’orlo di
un collasso socioeconomico: mentre la capitale
britannica era in ginocchio colpita da continui
attentati dell’IRA e Margaret Thatcher stava per
esercitare la Legge del pugno di ferro, New York era
sull’orlo del caos, alle prese con lunghe serie di
omicidi, i continui blackout, le razzie nei negozi.
Improvvisamente, l’atmosfera di benessere economico
e dell’ottimismo degli anni 70, gli hippies
dai lunghi capelli e le discoteche pacchiane con la
musica dance non esercitavano più alcun fascino sui
giovani, che impauriti dall’assenza di un futuro
concreto mandano all’aria codici sociali ed
estetici. Era arrivato il punk: una reazione sociale
contro il capitalismo e il conformismo senza
precedenti e di proporzioni eccezionali, che
ridefiniscono un’intera generazione di giovani
scontenti. Nel giro di poche settimane uscì, uno
dopo l’altro, una decina di album punk fondamentali.
Londra aveva i Clash, i Damned e i Sex Pistols,
mentre a New York si diffondeva la musica innovativa
e pionieristica di Johnny Thunders & The
Heartbreakers e dei Ramones. E, ovviamente, mentre
il punk diventava la colonna sonora di una
generazione insoddisfatta, il suo look ne divenne
l’uniforme. A Londra il punk aveva un look
di tipo oltraggista: più l’abbigliamento era
sfrontato, scioccante e inquietante, meglio era. Il
pvc e l’armamentario sadomaso divennero la regola e
il makeup per le ragazze muta radicalmente
passando dal glitter colorato da discoteca
a una lucida e feroce pittura nera di guerra. Nel
frattempo, jeans stretti e cinghie bondage,
collari, camicie strappate e spille imponevano agli
uomini la rottura delle distinzioni di genere e
delle regole sociali. Ai piedi c’erano le
Dr Martens, le scarpe di Sid Vicious e degli Who.
Sono loro ad indossare le Dr. Martens 1460 per
primi. Pete Townshend, fondatore della
band, le rese la sua calzatura preferita. Nella
canzone “Uniforms (Corp d’Esprit)”, la band parla
dei celebri boots made in England cantando
“Wear your braces round your seat / Doctor
Martens on your feet / Keep your barnet very neat
/ For credibility on street”. Negli anni ’80
i punk, che spesso utilizzavano in alternativa
esclusivamente Converse o Creeper, fecero diventare
le Dr. Martens le loro scarpe ufficiali, ben
visibili nel ‘82 ai piedi del cantante Joe Strummer
nel video di “Rock The Casbah”, come addosso a Sid
Vicious, ai Rolling Stones o ai Damned. I vestiti
infatti, non si limitano mai ad essere
esclusivamente abiti da indossare, ma sono
riconducibili sempre anche ad un’immagine del sé che
si vuole offrire verso l’esterno; esprimo cioè, un
messaggio, un codice, un valore soggettivo ed
oggettivo. In questo senso, tali abiti così
oltraggiosi, possono negare o disturbare un contesto
sociale normalizzato dal punto di vista della
coerenza e della razionalità, come una pratica che
scombina una cosa ordinata e ne ribalta il modello
su cui poggia. Si prende un oggetto che tutti hanno,
usano o indossano (che sia una t-shirt o una spilla
da balia) e lo si strappa, rovescia, ribalta. In
questa ottica sovversiva, di creazione di un
immaginario altro e alternativo, spazio per il
brand a tre strisce, non ce n’era. ADIDAS E SKINHEADArriviamo così a snocciolare la parte più importante dell’articolo: ad oggi, è opinione comune che indossare Adidas – per lo più Samba – sia sinonimo di appartenenza alla sottocultura skinhead. Persino Wikipedia cita questo indumento nell’armamentario identificativo dello skin moderno! Aldilà delle valutazioni attuali sul ritorno in auge di questo modello e l’invasione del mercato moderno (principalmente dovuto all’operazione commerciale di Bella Hadid, supermodella americana da 56mln di followers che nell’estate 2022 ha sfoggiato questo capo in diverse occasioni e con molteplici abbinamenti provocanti riscuotendo enorme popolarità tra i giovani ed arrivando ad influenzare altre star come Hailey Beiber e Kate Moss) rimanendo nel movimento underground, esulando dalla moda mainstream, oggi tutti siamo soliti associare le Samba agli skinhead. Ma questo avviene esclusivamente in epoca moderna! Bisogna infatti, differenziare due momenti del culto skinhead: la prima fase, meglio nota come Spirit of ’69 e una seconda più recente. Quando il culto skinhead nasce, nessuno indossava le Adidas, anzi! Come analizza correttamente Flavio Frezza nel suo Italia Skins: “nel 1969 la sottocultura skin era ormai altra cosa rispetto a quella mod. L’aspetto esteriore era codificato – anche se naturalmente non aveva cessato di evolversi – e il termine skinhead si era ormai imposto. […] I capelli erano corti, a volte cortissimi ma non a zero. Gli scarponi indossati erano inizialmente quelli da lavoro o dell’esercito, a otto o a dieci buchi, preferibilmente con la punta in acciaio, la quale tornava particolarmente utile in caso di risse e aggressioni: soltanto in un secondo momento si diffusero i più comodi Dr. Martens. Tra i modelli di camicie in voga in quegli anni, nel tempo prevalsero le button–down a quadri o righe, oppure bianche, soprattutto della marca Ben Sherman. Altri elementi caratterizzanti erano le polo da tennis di marca Fred Perry e le bretelle strette”. Si trattava in definitiva di un aspetto duro e pulito, la cui essenza era riassumibile nel motto ‘dress hard, dress smart’. In questi primi anni essere skinhead consentiva una sorta di libertà sul modo di vestire (tra t-shirt o camicie, bretelle indossate o meno, cappotto modello crombie o harringhton) ma non era transigente sulle scarpe: tutti i ragazzi che appartenevano a crew di skins indossavano scarponi ai piedi. Nel suo “Spirit of ’69 – la bibbia skinhead” George Marshall, nell’ultima parte del libro alfabetizza un elenco dove riassume in ordine tutti i codici identificativi del culto skinhead e passando dal taglio Chelsea ai Monkey boots, fino ai tatuaggi e il colore delle bretelle, non cita nulla riguardo le Samba (pur già esistenti, visto che la loro creazione risale al 1949, con ammodernamento nel ’54 e massiccia immissione nel mercato intorno al ’63-’64) e non parla in alcun modo di roba Adidas. Nel suo secondo libro, anch’esso di riferimento per il movimento skinhead internazionale, sempre George Marshall scrive in merito a chi indossava Adidas, usando toni dispregiativi, che: “We were still most definitely a bootboy crew and still wore DMs, the most important part of the bootboy uniform. There were others in different towns who called themselves bootboys, but they didn’t look the part in desert boots, Adidas trainers, flared Levi’s, and leather jackets. (Noi eravamo ancora una crew di bootboys e vestivamo ancora coi Dr.Martens, la parte più importante dell’uniforme di un bootboy. C’erano anche altri in altre città che si facevano chiamare bootboys, ma loro non erano del nostro giro, indossavano scarpe Adidas, jeans Levi’s e giacche di pelle)”. Eppure, di foto di skinheads negli anni ’90 vestiti Adidas dalla t-shirt alle scarpe, ne sono pieni gli archivi. In effetti nella sua seconda ondata, nota come ‘periodo revival’ e corrispondente alla seconda metà degli anni Ottanta, anche lo stile skinhead cambia ed evolve. In particolare adottando elementi provenienti dal mondo militaresco; troviamo quindi l’inserimento nel vestiario di articoli come il bomber da aviatore, il pantalone mimetico largo con le tasche e le toppe ricamate, che tolgono spazio agli eleganti crombie, alle bretelle e agli anfibi lucidi. Nello stesso periodo il culto skin approda oltreoceano, negli States, dove si diffonde alimentato da band fondamentali del panorama Oi! internazionale quali Warzone, Agnostic Front, Doug & the Slugz ecc. E sempre nello stesso periodo, il culto skin si era largamente diffuso anche in Europa, arrivando in Italia (sull’argomento consiglio il già citato libro di Flavio Frezza Italia Skins: appunti e testimonianze sulla scena skinhead dalla metà degli anni ’80), Spagna e Francia. E’ estremamente difficile stabilire cosa abbia influenzato cosa, se sia nato prima l’uovo o la gallina, ma per capire come mai il brand Adidas sia stato adottato in modo così massiccio dalla seconda ondata skinhead, dobbiamo considerare alcuni fattori, che provo ad enucleare: in primo luogo negli USA lo stile militaresco (tipico) si interseca alla scena skinhead proveniente dalla Gran Bretagna generando ciò che poi prese il nome di American Oi! hardcore. Alcuni membri di riferimento per la scena, come Raymond Raybeez Barbieri furono persino veterani del U.S.Army. Altri, come racconta lo stesso Miret, vivevano in case occupate dei sobborghi e dei ghetti delle grandi metropoli, in mezzo a topi e mendicanti. Non avevano disponibilità economica per vestire di marca Ben Sherman o Fred Perry, ed iniziarono dunque a preferire – o farsi andar bene – jeans varichinati e t-shirt autoprodotte, anfibioni recuperati dalla leva o indumenti rubati nei negozi (quindi di marche commerciali come Adidas). In secondo luogo, esclusivamente nei paesi europei, lo stile militaresco divenne talvolta necessario, per via dell’acuirsi delle guerre tra bande che – seppur siano sempre esistite all’interno del culto skinhead, spesso tra gang rivali e per ragioni territoriali – nel periodo revival assumono maggior importanza poiché connotate politicamente; in altre parole redskins e bonheads nazi incominciano a farsi letteralmente la guerra, con agguati, risse, assalti ai luoghi di riferimento e omicidi; l’abbigliamento inevitabilmente ne risente e rispecchia queste dinamiche. La camicia e le bretelle lasciano il posto ai più comodi jeans e t-shirt, persino tute acetate (in merito alle modalità di vestire e di procacciarsi indumenti, consiglio la visione di Antifa Cacciatori di nazi – Chasseur de Nazi, documentario disponibile su YouTube). Inoltre, come terzo fattore, c’è da considerare la commistione che avevano negli Ottanta skinhead ed ultras (o hooligan nel Regno Unito). Analisi che va fatta distintamente: in Europa, il fenomeno ultras negli anni Ottanta attraversa forse la sua fase più imponente, diventando ciò che ancora per molti significa essere ultras; trasferte oceaniche, tamburi e fumogeni a colorare, appartenenza al gruppo e ricerca dello scontro con l’avversario. Mi permetto di spingermi oltre: queste modalità sembrano funzionare, per via anche dell’incapacità delle forze repressive di capire e prevedere il fenomeno; è in questo periodo che si registrano episodi storici e cruciali (nel bene e nel male) del movimento ultras europeo, per quantità di masse mobilitate e per livello di violenza. E gli anni Ottanta pervadono le curve anche nell’abbigliamento. Non occorre essere skinhead per rappresentare la parte dura del tifo: altre sottoculture, con le loro caratteristiche stilistiche, invadono le gradinate e appagano ugualmente i giovani tifosi (mods, freak, teddy boys etc). In Inghilterra invece si assiste alla prima ondata del Casualismo, come accennato precedentemente, grazie alla quale i giovani skin che ancora frequentano le terraces capiscono che “ammorbidendo” il loro stile, riescono a continuare a frequentare le curve nonostante la guerra all’hooliganismo imposta dal Football Spettactors Act di Margaret Thatcher (sull’argomento consiglio la lettura dell’articolo di Indro Pajaro sulla rivista web Ultimo Uomo). E il casualismo inglese “impone” le scarpe Adidas, coloratissime e vistose. Forse troppo per gli skin abituati al nero lucido dello scarpone. Le sneakers Samba sembrerebbero essere il giusto compromesso. Infine, come quarto ed ultimo elemento, c’è da ricordare la commistione che il culto skin, col passare del tempo, subisce insieme ad altri fenomeni culturali e musicali, in primis quello della Black Music da cui è generato e a cui per sempre è legato, ed in secundis quello col punk hardcore ’90. Nel primo caso abbiamo già analizzato la presenza del brand a tre strisce, nel secondo caso c’è da aggiungere qualcosa. Perché, se è vero che i punk ’82 vestivano di jeans neri strappati, chiodi con le spille e stivaloni Dr.Martens, l’hardcore anni ’90 introduce nel vestiario indumenti di brand squisitamente americani e tipicamente sportivi, rivoluzionando – in tal senso – la concezione prettamente punk dell’essere “alternativi”. Felpe Champion, t-shirt Converse, camicione a scacchi Vans fanno prepotentemente il loro ingresso sulla scena punk. Con esse anche tute Nike, Reebok ed Adidas. Tutti coloro – skinhead da molti anni – ai quali ho chiesto come mai indossassero Samba e da dove proveniva secondo loro tale scelta, se fosse influenzata o meno da qualcosa, hanno risposto in modo differente. Ma senza dubbio le percentuali vanno a favore del motivo ‘legame con lo stadio’. Alcuni hanno riposto che era frequente vedere ragazzi ballare soul e black music ai raduni e alle serate mod con anfibi bassi 1461 o Adidas lucide, dai modelli eleganti, quali appunto Samba o Beckenbauer o Munchen. Molti invece, hanno additato il motivo al legame con la cultura casual, con la frequentazione delle gradinate e una non-necessità di doversi tutelare in caso di aggressioni e risse (oggettivamente, col passare degli anni, sempre meno frequenti all’interno della scena skinhead e ultras). Negli anni Novanta molte tifoserie iniziano a fare del casualismo un vero e proprio culto e frequentare le curve significava farsi influenzare da questo stile. Quale che sia il motivo per cui
un brand commerciale ha saputo affermarsi in maniera
così preponderante all’interno dello stile di una
sottocultura di nicchia, permettetemi un pensiero di
conclusione: Adidas è un brand nonchè una delle
multinazionali più grandi del pianeta, uno dei tanti
motori dell’attuale economia globale, una ditta con
migliaia di dipendenti, affari, sedi industriali e
aziende in tutto il pianeta. Motivi che ci spingono
a guardarla sempre con occhio critico e spirito di
contestazione, poiché la logica che sottende ai suoi
affari è quella del capitale: accumulo delle
ricchezze, sfruttamento della forza lavoro, tagli
sui diritti dei lavoratori, inquinamento del pianeta
ed infinite altre nefandezze. Allo stesso tempo è
inutile negare che, almeno in passato, Adidas è
stata avvicinata ad idee “di sinistra”: questo per
via della sponsorizzazione per paesi comunisti,
socialisti, apertamente anti-Usa (dalla DDR,
passando per Cuba, Venezuela, la stessa Unione
Sovietica fino al 1991 ed altri) ed in anni in cui
altre multinazionali preferivano evitare. Anche in
tempi più recenti Adidas ha preso posizioni
pubbliche riguardo alcuni temi sociali come i
diritti civili, la tutela dell’ambiente,
l’inclusività dei soggetti disabili, la lotta alle
discriminazioni razziali fuori e dentro i campi da
gioco, persino sulla questione Israelo-palestinese.
Ma rimane una multinazionale – il maggiore
produttore di abbigliamento sportivo in Europa e il
secondo a livello mondiale – e lo scetticismo è
d’obbligo perchè ogni tipo di “washing” è
sempre funzionale al capitale, alle sue vendite
mirate all’affermarsi in altre fette di mercato
vergini. La critica anti-capitalista deve
sottendere ad ogni ragionamento sullo stile delle
nostre sottoculture. Resta dunque,
semplicemente, un brand capace (con una certa linea
di design) di far brillare gli occhi dei kids
che, consapevoli delle infinite contraddizioni che
questo sistema economico ci impone, indossano Adidas
just for standing, not for running.
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