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ARTICOLO DI SIMONE MELONI
(SPORT PEOPLE)
Quando l’urna associa la
Real Sociedad alla Roma ci sono due reazioni naturali:
la prima è l’eccitante curiosità di metter per la
prima volta piede nei Paesi Baschi, a casa di una
tifoseria che gode di una discreta fama. Dall’altra il
timore di dover affrontare, come spesso accade su
suolo iberico, la solita dose di repessione e
aggressività da parte della polizia autoctona. Diciamo
che a conti fatti non mancherà nessuno di questi
ingredienti. Ma il dado è tratto, quindi occorre
organizzare il viaggio nella maniera più minuziosa,
anche perché ormai le compagnie aeree hanno capito
alla perfezione la maggior parte dei giochini di chi
ne è assiduo frequentatore e cerca sempre di
risparmiare. Pertanto i prezzi, da qualche anno, sono
lievitati, divenendo in prossimità di partite o
concerti quasi vergognosi.
La tabella di marcia
prevede uno scalo a Londra, l’arrivo a Santander e la
prosecuzione in pullman fino a San Sebastian. Di fatto
quasi una giornata di viaggio. Ormai abbiamo fatto il
callo nell’incontrare facce familiari in ogni pezzo
d’Europa, impegnati in scali improbabili e viaggi
della speranza. Eppure penso di poter parlare a nome
di molti, dicendo che questo modo bizzarro di muoversi
regali molte più emozioni di un’asettica business
class e di un lussioso taxi che ti porta fino
in albergo. Spostarsi senza farsi spellare richiede
ingegno, conoscenza della geografia e una grande dose
di pazienza. Insomma, tre doti che nel mondo
contemporaneo non sono propriamente scontate!
Dopo la piccola sosta a
Santander, comprensiva di pranzo e solite esagerazioni
alcoliche a cui ormai la Penisola Iberica ha abituato
un certo tipo di trasfertisti amanti del vino, si sale
su un pullman della compagnia Alsa alla
volta di Donostia (nome basco di San Sebastian).
Sottolineare l’utilizzo di questi pullman è anche per
rammentare la poca simpatia e lo scarso senso
dell’umorismo dei suoi autisti, che ci faranno
rimpiangere persino qualche buzzurro conducente dell’Atac
e il suo tragicomico inglese pure su linee che
trasportano pelopiù turisti. Della serie “non c’è mai
fine al peggio”. Che poi, quando di fronte hai
soggetti che per un paio d’ore si sono rimpinzati di pintxos
(la versione basca delle tapas, crostini di pane
su cui viene messo ogni ben di Dio, dai calamari, ai
formaggi e salumi) e vari tipi di crianza
(vino rosso) c’è poco da fare gli scorbutici!
San Sebastian è uno di
quei posti che non può non rimanerti dentro. Prima
ancora di parlare del suo stretto rapporto con la
Questione Basca, e del suo ruolo politico e sociale in
una zona molto delicata della Spagna, ad appena venti
chilometri di distanza dal confine con la Francia,
occorre sottolinearne le bellezze paesaggistiche. Con
un centro cittadino piccolo e grazioso, in cui spicca
Plaza de la Constitucion con i suoi tipici
edifici iberici, colorati da quelle che in Portogallo
chiamano azulejas. Ciò che più colpisce è la
visuale dalle due colline, che specularmente fungono
da cesura alla magnifica spiaggia cittadina della Concha
(la conchiglia, per la sua forma), che giace su
questo lembo di Mar di Cantabria (un’articolazione
dell’Oceano Atlantico). Da una parte il Monte
Iguelda, dall’altra il Castello che sovrasta la
città vecchia. E al centro della Concha il
bellissimo Palazzo Miramar, sede sporadica –
in passato – della famiglia reale spagnola durante le
vacanze estive. Osservando le centinaia di persone che
già si avvicendano sulla spiaggia, giocando a pallone,
prendendo il sole e facendo il bagno, non si rimane
sorpresi nel sapere che questa è una delle località
costiere migliori di tutto il Paese. E sapete
cos’altro colpisce in positivo? Malgrado i Paesi
Baschi abbiano la nomea di zona più cara della Spagna
– essendo una regione economicamente forte e
industrialmente sviluppata grazie alla lavorazione del
metallo – la vivibilità per noi italiani (abituati
ormai a salassi pure per una birretta in centro) è
davvero notevole. Cosa che concilia assolutamente con
il posto che si visita, oltre a mentenere alta
l’identità, favorendo il divertimento e lo “struscio”
da parte della gente del posto.
San Sebastian è la terza
città dei Paesi Baschi (dopo Bilbao e il capoluogo
Vitoria) con i suoi 185.000 abitanti e deve il suo
nome alla presenza dell’ominimo monastero. Anche se,
va sottolineato, la radice del nome va ricercata
innanzitutto nel basco Donostia. Done,
infatti, significa Santo. Ed è l’appellativo più
antico. Prendendo spunto da questa osservazione
linguistica cominciamo con il dire che la provincia
della Gipuzkoa, di cui San Sebastian è capoluogo, è
quella più bascofona (su circa seicentomila abitanti,
almeno la metà parla, scrive e comprende il basco)
delle tre. Con la Biscaglia e l’Alava che invece
contano rispettivamente il 25 e il 16% dei parlanti.
Per capire quanto la storia e le tradizioni di un
popolo possano essere effettivamente autodeterminate e
longeve, occorre sempre prestare attenzione alla
lingua. Una delle migliori cartine al tornasole dal
punto di vista storico e antropologico. Il basco (euskara)
è una lingua paleoeuropea, vale a dire una lingua
parlata dapprima dell’avvento del ceppo indoeuropeo,
padre di tutti gli attuali idiomi e delle loro
pregresse trasformazioni. Il basco (che attualmente è
la lingua madre del 20% dei residenti nella regione) è
ciò che rimane, quindi, di un vasto sistema
linguistico che riguardava il nostro continente
millenni fa. Un sistema di cui faceva parte anche
l’aquitano. Queste due, assieme, sono infatti
conosciute come lingue vasconiche.
Ma effettivamente quando
parliamo di popolo basco, a cosa facciamo riferimento?
Si tratta di un’area compresa tra i fiumi Ebro e
Garonna, menzionata dai romani per la presenza di
tribù quali proprio vasconi e aquitani e che,
nell’Alto Medioevo, era conosciuta per l’appunto come
Vasconia. Abitata da un popolo ostile e guerrigliero,
citato peraltro nella celebre Chanson de Roland,
che narrando la Battaglia di Roncisvalle evidenzia la
ribellione delle popolazioni autoctone, talmente
cruente da costringere alla ritirata le truppe di
Carlo Magno. Tuttavia attorno alla genesi dei baschi
rimane sempre un alone di mistero, c’è chi li lega
strettamente agli iberi, rendendoli quindi tra i primi
colonizzatori della penisola, chi sottolinea come l’euskara
e altre lingue caucasiche siano residui di una fitta
rete linguistica cancellata poi dall’invasione
indoeuropea e chi addirittura azzarda la clamorosa
ipotesi di un’origine indoeuropea del popolo. Sta di
fatto che le loro radici si perdono nella notte dei
tempi e una tempra arcigna, oltre a una forte difesa
dellae proprie tradizioni, ne ha preservato parte
dell’identità da invasioni, rappresaglie e tentativi
di “conversione” in epoca moderna, vedasi soppressione
da parte dello stato franchista di qualsiasi tipo di
autonomia in favore di una centralità linguistica e
culturale completamente castigliana.
Da un punto di vista
geopolitico non vanno confusi il popolo e la regione
autonoma esistente nello Stato spagnolo (l’Hegoalde,
Paesi Baschi del Sud) la quale è sicuramente quella in
cui la cultura basca resta più radicata. Ciò non
esclude quella parte del territorio francese
(Labourd, Soule e Bassa Navarra) chiamata Iparralde
(Paesi Baschi del Nord), che fa storicamente parte
della Vasconia. Inoltre si deve tener conto
dell’importante diaspora avvenuta soprattutto nella
prima parte del ‘900, quando dopo aver preso parte
alla Guerra Civile Spagnola su fronte repubblicano
(fatta eccezione per i baschi di Navarra), alla
vittoria di Francisco Franco la popolazione venne
repressa e privata di qualsiasi autonomia. Solo nel
1975, con la morte del caudillo e il
ripristino della democrazia, lo stato spagnolo tornerà
a concedere quelle autonomie (attualmente la Comunità
è dotata di un proprio parlamento, di un tribunale, di
un Ararteko – cioè una sorta di garante che
si accerta non vengano calpestati determinati diritti
dallo Stato Centrale – e un Administración
General del Estado, che rappresenta invece il
governo spagnolo) storicamente già presenti nel
sistema dei fuero – una sorta di privilegi
creati alla nascita del Regno di Castiglia per
uniformare l’aspetto legislativo ma concedere alcuni
privilegi laddove necessario – che per secoli erano
stati garantiti a questa regione. Concessioni che non
porranno però fine alla lotta volta
all’autodeterminazione dei territori, portata avanti
in particolar modo dall’ETA (Euskadi Ta Askatasuna,
Paese basco e libertà) – un’organizzazione armata, di
principale stampo marxista-leninista – e politicamente
dal partito Batasuna, disciolto poi dalle
autorità spagnole perché ritenuto braccio destro
dell’ETA.
A chi si trovi a girare
nelle strade di San Sebastian, Vitoria e soprattutto
Bilbao risalterà certamente la presenza su molti
balconi, ma anche presso alcuni esercizi, di bandiere,
adesivi e drappi di Etxerat, associazione
che dal 1991 si batte per la liberazione di
prigionieri ed esiliati a causa della loro lotta per
l’indipendenza. Senza dubbio fa un certo effetto
vedere simili rivendicazioni in un’Europa – almeno
quella occidentale – che crediamo ormai scevra da
certe dinamiche, ma dove invece (i recenti scontri di
Derry insegnano) alcune tematiche non sono realmente
sopite o morte, ma ardono sotto i carboni e rischiano
di rivenire a galla di tanto in anto.
In tanti, anche nelle
nostre curve, fanno bella mostra della Ikurrina (la
bandiera basca) conoscendo poi ben poco di tutto
quello che c’è dietro questo semplice pezzo di stoffa.
Assodata l’inutilità – e la dannosità talvolta – di anteporre
idee politiche alla militanza ultras nel 2023, la
presenza di questo vessillo è senza dubbio un segno
tangibile di come la suddetta Questione Basca abbia
sovente rappresentato la volontà di resistere alle
oppressioni statali per preservare diversità e
cultura. Nella fattispecie l’ikurrina (dal
neologismo ikur’ina, e a sua volta dal
termine ikur, che significa simbolo) è stata creata
nel 1894 dai fratelli Luis e Sabino Arana, fondatori
del Partito Nazionalista Basco. Sullo sfondo rosso
(colore della Biscaglia) si staglia una croce di
Sant’Andrea verde e una di San Giorgio bianca, colore
del cattolicesimo. La bandiera che vediamo sventolare
oggi in disparate manifestazioni di piazza e in
numerosi stadi, è riuscita persino a spodestare
l’antica aquila nera, simbolo del Regno di Navarra.
Conosciuta in basco come Arrano beltza.
Peraltro, ricollegandoci
al cuore di questo racconto, sono in molti a
riconoscere l’importanza di questa regione
nell’importazione e diffusione del football su
suolo iberico. La particolare importanza commerciale
del Golfo di Biscaglia, infatti, ha favorito a inizio
secolo i più disparati contatti e non è casuale che le
principali squadre basche abbiano una fondazione
prossima all’inizio del ‘900. Senza contare che
antichi giochi sferistici come la pelota basca
e lo Jal alai rappresentano un segno
tangibile del retaggio paleoeuropeo di questo popolo.
Chiaramente il calcio ha
preso il sopravvento per interesse e seguito.
Mantenendo un ruolo importante nella rivendicazione
della propria identità. Oltre al celebre modello
Atheltic Bilbao – che da sempre tessera solo ed
esclusivamente atleti baschi o cresciuti in club e
strutture basche – non tutti sanno che esiste una vera
e propria selezione “nazionale” (non riconosciuta da
FIFA e UEFA), attiva sin dagli anni ’30 del Novecento.
Un aneddoto esemplare risale al 1937, in piena Guerra
Civile. L’allora Lehendakari (il presidente
del consiglio della Comunità Autonoma) spinse per
formare una selezione nella quale fossero annoverati
alcuni tra i migliori calciatori di Spagna, con la
finalità di realizzare un tour mondiale e raccogliere
fondi utili a perorare la causa Repubblicana e, di
conseguenza, legittimare ancor più l’autonomia della
comunità basca. Furono diverse stelle dell’epoca ad
accettare e la tournée, dopo diverse tappe
continentali, riuscì a valicare i confini europei
portandosi dapprima in Messico e poi in Argentina. A
quel punto la FIFA dichiarò illegittima Euzkadi,
impedendo ai giocatori di scendere in campo. Per
eludere tale divieto il sodalizio tornò in Messico,
affiliandosi alla federazione locale e disputando il
campionato nazionale sotto il nome di Club Deportivo
Euzkadi (piazzandosi terza).
Il successivo avvento del
franchismo e l’impossibilità di dar sfogo a qualsiasi
corrente nazionalista non spagnola, portarono al fermo
di qualsiasi attività. Si riprese a giocare solo nel
1979, “esordendo” contro l’Irlanda in un’amichevole
finita 4-1 tra le mura amiche del vecchio San
Mames di Bilbao. Mentre bisognerà attendere il
2007 per vedere – sett’antanni dopo – giocare la
selezione in trasferta, e più precisamente in
Venezuela.
Da una pur breve analisi
storica è lapalissiano dedurre un profondo scontro
sociale e politico che ormai da secoli attraversa la
Spagna. Frizioni che si riverberano anche negli stadi,
dove negli anni non sono mai mancati striscioni, cori
e riferimenti a tutto ciò. Parlando di San Sebastian,
ad esempio, resta agli archivi uno degli episodi più
cruenti accaduti a margine di una partita della Liga:
nel 1998 fuori allo stadio Vicente Calderon,
prima della sfida tra l’Atletico e la Real Sociedad, un
tifoso basco viene ucciso da alcune coltellate.
Proprio in un periodo in cui la trattativa tra lo
Stato e l’ETA era in una fase delicatissima, con
l’organizzazione basca che lentamente cominciava ad
accusare la forte repressione attuata dal governo del
primo ministro Aznar. Quando si parla di movimento
ultras spagnolo è inevitabile tener conto delle
dinamiche – molto ma molto diverse dalle nostre – che
riguardano quel Paese e che giocoforza si attengono a
una storia nazionale travagliata, scombussolata da
importanti e forti richieste di autonomia, non solo su
fronte basco.
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