INTERVISTA A FRANCO PECCENINI Il Romanista 14 aprile 2018
Si
diceva
che con Francesco
Rocca e Franco
Peccenini la Roma aveva trovato
una coppia di terzini con
cui sarebbe stata a posto per vent'anni. Si diceva che
erano gli unici due
italiani che avrebbero potuto giocare nella Grande
Olanda del Calcio Totale. La
storia di Rocca è ben nota, e Il Romanista l'ha
raccontata dando voce al
diretto interessato. Quella di Peccenini è
molto
simile: anche
lui fu fermato da un gravissimo infortunio al
ginocchio, quando
aveva tutta la carriera davanti. Come Rocca, provò per
qualche anno prima di
arrendersi. Come Rocca, è un romano che veniva dalla
provincia. Ed è come se ci
fosse stato anche Rocca, quando Franco Peccenini da
Palestrina è venuto a
trovarci in redazione.
«Il mio presidente a Palestrina era Dino Viola. Avevo un
buon rapporto con lui.
Mi cedette prima al Mantova. C'era Ariedo Braida, viveva
nel pensionato degli
scapoli e mi scorrazzava tra il campo di allenamento e
il ristorante dove
mangiavamo. Lì avevo come allenatore Giagnoni, che poi
avrei ritrovato alla Roma.
Si ricordava di me, anche se lì stetti pochissimo.
Tornai subito. E la stessa
cosa accadde quando fui ceduto alla Fiorentina: un
mesetto, feci solo la
preparazione. Come allenatore avevo Mario Mazzoni, ex
giocatore della Roma anni
30».
Autore
di un gol al derby...
«Proprio lui. Aveva una voce rauca, era molto amico di
Fulvio Bernardini, si
incontravano spesso a Coverciano. Ma venni via presto
anche da lì, dopo un mese
e mezzo di preparazione. Mi successe la stessa cosa che
mi era accaduta al
Mantova: nostalgia di casa. Poi arrivò la Roma. Nel
frattempo ero stato
bocciato da un osservatore della Lazio. ‘Se torni
indietro pure dalla Roma, per
te è finita', mi disse Viola».
Il
calcio stava diventando una professione.
«Ancora non avevo la percezione di capire se poteva
essere il mio futuro o no.
Ero ancora lo stesso ragazzo che aveva iniziato per
strada a Palestrina. Andavo
dietro al sentimento che mi diceva di giocare a calcio
invece di andare il
sabato a ballare o in giro. Questo mi spingeva. È una
cosa che hai nel dna ed è
quello che fa la differenza. C'era anche gente più brava
di me, che però poi
non ha fatto molta strada, magari perché aveva altre
priorità. Ce ne sono anche
oggi, si vede chiaramente, e mi fanno arrabbiare. Ne
vedo tanti che hanno
grandissime qualità, ma certe teste... Io facevo parte
dei ragazzi che vivevano
solo per il calcio».
Cosa
hai provato quando hai indossato per la prima volta
la maglia della Roma?
«Mi era già capitato durante i provini. La maglia era
sempre quella, sempre
quei colori. Ma la prima volta in cui la indossai da
giocatore della Roma fu
come prendere una secchiata d'acqua gelata in faccia in
pieno agosto. Brividi.
Nonostante fossi preparato, sapevo che sarebbe successo.
Ma il primo giorno in
cui ti infili quella maglia è indimenticabile. Me la
consegnò Giorgio Bravi,
mio primo allenatore nelle giovanili».
Ti
sei innamorato subito della Roma?
«Sì, nel giorno in cui ho messo piede alle Tre Fontane.
Non fu difficile.
Quando incontri gente come Angelino Cerretti, che
guardavo con grande timore
reverenziale, o Roberto Minaccioni e Giorgio Rossi, che
era entrato prima di
me, non puoi non sentire subito cos'è la Roma. Te lo
trasmettono con la potenza
della loro storia, dei loro sguardi, del loro esempio.
Giorgio Rossi poi ci è rimasto
tantissimi anni, all'epoca faceva su e giù tra giovanili
e prima squadra, anche
perché il massaggiatore era uno. Non 7-8 come adesso.
Alcune società non
avevano neanche il preparatore atletico. Forse è
un'esagerazione. Io dico:
quando hai il tattico, il preparatore atletico, il
motivatore, il personal
trainer, il mental coach, eccetera... ma tu allenatore,
allora, che ci stai a
fare? Prima tutte queste cose le faceva una persona
sola. È il progresso,
dicono. Io dico di no. Dico che è un dispendio eccessivo
di risorse. I
personaggi che ho citato prima, Cerretti, Minaccioni,
Rossi... erano legati a
un altro modo di interpretare il calcio. Cerretti era
uno che quando ti mettevi
sul tavolino e ti faceva male qualcosa, te lo faceva
passare subito. Magari anche
solo dicendoti che non avevi niente fino a convincerti e
tu pensavi: ma metti
che mi fossi sbagliato? ‘Vieni qui, testa di c... che ti
fascio la caviglia,
vieni qui', diceva».
Se
ci fosse Francesco Rocca, direbbe che lui non si è
mai fatto fare un massaggio.
«Francesco era ed è un grande. Un grande campione, un
grande uomo di sport e un
grande amico. Giocavamo insieme già nella Primavera.
Grandi soddisfazioni.
C'erano Vichi, Pellegrini, Piacenti, Banella, Selitri...
Ho vinto il secondo
titolo mentre ero già in prima squadra, ma andai a
rinforzare la Primavera
nelle finali nazionali».
L'esordio?
«Fu contro il Varese. Due o tre giorni prima già avevo
capito che sarebbe
toccato a me, perché Herrera mi aveva schierato negli
allenamenti con la
formazione che presumibilmente sarebbe stata titolare la
domenica successiva.
Che momenti. Mille pensieri, mille emozioni, sensazioni
fortissime. Giocai solo
il primo tempo, ma l'anno successivo partii subito
titolare. Pareggiammo, col
Varese di Anastasi. Allora uscivano giocatori importanti
da lì, come Bettega».
Cosa
ti disse Herrera?
«Mi parlò la domenica mattina. Se ti chiamava da parte,
era perché giocavi.
Allora apriva un libretto in cui aveva segnato tutto sui
giocatori avversari,
tutte le loro caratteristiche. Ti spiegava com'era il
calciatore che dovevi
marcare, i suoi punti di forza e i suoi punti deboli.
Quelli magari te li
diceva poco perché non voleva darti l'idea che avresti
avuto vita facile.
Sapeva tutto degli avversari».
Che
ricordi hai del Mago?
«Herrera era un grande conoscitore di calcio e di
calciatori. Ed era un buon
preparatore atletico. I suoi allenamenti duravano poco
più di un'ora, al
massimo un'ora e dieci minuti. Ma in quell'ora e dieci
non respiravi mai. C'era
una grandissima intensità. Certo, è venuto a Roma un po'
con la pancia piena,
visti i grandi successi che aveva ottenuto in passato.
Lui era forse l'unico in
quel periodo che ti faceva toccare il pallone già dal
primo giorno di ritiro,
cosa che oggi è normale. Sosteneva che il pallone era il
tuo ferro del mestiere
e quindi tu dovevi conoscerlo al meglio possibile. Era
tutto in funzione del
pallone. Ogni scatto, ogni corsa, ogni esercizio sempre
col pallone tra i
piedi. Non faceva fondo».
Se
ci fosse Francesco Rocca, direbbe che poi però le
sue squadre calavano in
Primavera.
«Era vero».
E
Liedholm?
«Lui aveva uno staff di preparatori atletici. Non curava
direttamente questa
parte. Solo una volta, a mia memoria, ci ha allenati
lui. Stavamo cazzeggiando
un po' troppo con Gaetano Colucci, il nostro
preparatore. Lui lo chiamò e gli
disse: ‘Gaetano, lascia i ragazzi. Ci penso io'. Beh, ha
preparato un percorso
di guerra e alla fine ci ha fatto vomitare tutti. Si era
decisamente
arrabbiato. Lui comunque è stato l'allenatore che mi ha
insegnato di più. E se
riuscivi a capirlo, ti insegnava anche a vivere. A modo
suo, certo, anche
perché aveva una personalità non indifferente e un
passato da calciatore di
altissimo livello, che si vedevano nel suo modo di
gestire le cose. Così
riusciva anche a gestire le teste calde, creava stimoli
per chi faceva fatica a
trovarli. A me nei periodi in cui non giocavo mi diceva
che ero il più forte.
Certo, mi veniva anche il dubbio che mi stesse prendendo
il giro. Ma sapete,
nel dubbio, alla fine uno preferisce scegliere la parte
migliore».
Si
racconta di un abbraccio a un albero a Cuccaro
Monferrato... leggenda o realtà?
«Andò così. Liedholm, che è stato un grande allenatore,
aveva, come tutti
sanno, anche alcuni aspetti folcloristici. Un'estate
chiamò me e Francesco
Rocca mentre stavamo in vacanza. ‘Senti Franco – disse –
sarebbe il caso che tu
e Francesco veniste a Cuccaro Monferrato in un
pre-pre-ritiro'. Era
luglio".
Pre-pre-ritiro?
«Sì, disse così. Ci fece prendere il treno e ci venne a
prendere alla stazione
per portarci nella sua splendida tenuta. Siamo stati lì
una settimana. La
mattina facevamo lunghe passeggiate, c'era un laghetto.
‘Ci stanno le carpe',
diceva lui. ‘Mister, ci stanno le scarpe, casomai!',
dicevamo noi. Beh, poi ci
faceva effettivamente abbracciare i pioppi. Diceva che
ci facevano scaricare
l'energia negativa».
Se
ci fosse Francesco Rocca, chissà che cosa direbbe...
«Grande Francesco. Pensate che nel periodo in cui, come
ho raccontato prima,
fui bocciato da un osservatore della Lazio, la Juventus,
a cui il Cincecittà
Bettini, dove giocava lui, era affiliata, mandò un
osservatore a vederlo e lo
bocciò. Non ricordo chi fosse questo fenomeno. A volte
ci capitava di fare tre
partite in tre giorni, tra le varie rappresentative,
anche con le Nazionali
giovanili»
Quando
vi siete incontrati per la prima volta?
«Direttamente alla Roma. Da avversari non ci eravamo mai
incrociati. Forse in
qualche partita tra Cinecittà Bettini e Genzano. Ci
hanno messi subito in
camera insieme, nel pensionato a Ostia. Siamo diventati
amici e ci siamo anche
tolti belle soddisfazioni con la Primavera».
Quello
di Anzalone fu l'ultimo tentativo di costruire una
Roma dal settore giovanile.
«Vero. Di lui ho un ottimo ricordo. Da dirigente curava
proprio il settore
giovanile, lo seguiva con grande attenzione. Era molto
vicino a noi ragazzi, ci
seguiva, ci teneva molto. Ma anche da presidente poi è
stato sempre molto
presente. Sono usciti ottimi giocatori da quel settore
giovanile. Oltre a me e
Rocca anche Di Bartolomei, Quintini, Conti, Stefano
Pellegrini... gente che poi
ha giocato tante partite in Serie A. Anzalone purtroppo
è stato sfortunato.
Alcuni giocatori si sono fatti male e non hanno reso
quanto avrebbero potuto.
Penso proprio a Rocca e me, ma anche a Spadoni, per
esempio. Quando perdi così
tanti pezzi per strada in questo modo diventa dura. Ma
lui è stato anche un
presidente moderno. Ha costruito Trigoria, si è
inventato il lupetto. Penso che
la sua figura vada rivalutata».
Torniamo
a Franco e Francesco. Rocca e Peccenini. In fondo, è
come se Rocca fosse qui...
«Abbiamo avuto un destino simile. Si diceva che la Roma
finalmente aveva
trovato due terzini che cercava da tempo. ‘Dureranno
vent'anni', si scriveva. E
invece ci siamo fatti male tutti e due. A me è successo
nel 1975. Il mio
infortunio fu diverso dal suo. Pagai tutta una serie di
microtraumi, finché a
Napoli presi una pallonata durante il riscaldamento e mi
venne subito un
ginocchio grande così. Era l'ultima goccia. Dovremmo
lamentarci anche di come
siamo stati curati, anzi non curati. Le tecniche
dell'epoca purtroppo erano
arretrate. Oggi posso dire con certezza che hanno fatto
grandi errori. Quando
mi hanno operato sono usciti più cristalli di cortisone
che cartilagine. Il
cortisone è così: quello che il fisico non assorbe lo
cristallizza. E il mio
ginocchio era così. Sono poi tornato a giocare, ma non
con continuità. Fino al
1980 sono stato alla Roma, ho anche vinto la Coppa
Italia, ma non ho mai
giocato più di 15-16 partite l'anno. La metà delle
partite che avrei potuto
giocare. Avevo perso la condizione e le qualità che mi
avevano portato alla
ribalta»