Francesco
Paganelli
Matricola
1421759
INDICE
Storia e contesto............................................................
Il processo decisionale..................................................
- Agenda setting
e attori coinvolti...................
- Il quadro normativo.......................................
Struttura, stile,
processo di policy..................................
Raccomandazioni
di policy...........................................
Bibliografia...................................................................
1. STORIA
e CONTESTO
Il primo episodio
eclatante di violenza negli stadi risale al 28 ottobre 1979, giorno dell’omicidio
di Vincenzo Paparelli. Il tifoso laziale venne colpito ad un occhio da
un razzo a paracadute di tipo nautico esploso dalla curva opposta (a 150
metri di distanza), occupata dai tifosi della Roma. Il governo reagì
nella direzione di un ‘rientro nei confini della legalità’, vietando
per qualche tempo l’ingresso negli impianti dei c.d. strumenti di tifo,
quali striscioni e tamburi. E’ probabilmente qui che inizia la storia della
violenza negli stadi, e delle contromisure a livello di politiche pubbliche.
Ma se l’inizio si può collocare verso la fine degli anni ’70, in
un clima di dilagante violenza sociale, il punto di svolta, soprattutto
a livello europeo, è datato 29 Maggio 1985, giorno della finale
di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool tristemente famoso per la c.d.
strage dell’Heysel, in cui persero la vita 39 persone. Il 19 agosto dello
stesso anno venne elaborata a Strasburgo una convenzione europea sulla
pubblica sicurezza in occasione di manifestazioni sportive, approvata dagli
Stati membri del Consiglio d’Europa. In particolare l’art.1 (Scopo della
Convenzione) dichiarava:
“Al fine di prevenire
e controllare la violenza e i disordini degli spettatori durante le partite
di calcio, le Parti si impegnano, nei limiti delle rispettive disposizioni
costituzionali, a prendere i provvedimenti necessari per rendere effettive
le disposizioni della presente Convenzione”. E l’Articolo 3 (Provvedimenti)
recitava:
“Le Parti si impegnano
a garantire l'elaborazione e l'attuazione di provvedimenti atti a prevenire
e controllare la violenza e i disordini degli spettatori”. Fondamentalmente
si tratta di un documento il cui obiettivo è la cooperazione e la
coordinazione tra i vari enti nazionali, siano essi federazioni calcistiche,
organi giudiziari e di polizia o singoli club; ma rappresenta in ultima
istanza un esplicito invito agli Stati a dotarsi di una adeguata legislazione.
In Inghilterra, durante il governo Thatcher, entrarono in vigore diverse
leggi (nell’ ’85 “Sporting event act” e nell’ ’86 “Public order act”),
ma gli eventi che seguirono (in particolare nell’ ’89 la strage di Hillsborough
– 96 morti) produssero provvedimenti senza precedenti, caratterizzati da
un rigore assoluto e comprendenti misure di diverso tipo, quali ad
esempio l’innalzamento dei prezzi dei biglietti, eliminazione barriere
tra campo e spalti, divieto di vendita di alcolici etc. . In Italia la
recezione delle raccomandazioni e risoluzioni poste a livello comunitario
porta alla creazione del principale strumento normativo per la prevenzione
e repressione dei disordini in occasione di manifestazioni sportive, denominato
DASPO (legge 13 dicembre 1989 n.401), che inaugura una stagione che i giornalisti
definirebbero di “tolleranza zero”. Bisogna riconoscere che è difficile
decretare il successo di questo specifico strumento. Ad esempio, pochi
mesi dopo l’approvazione della legge, precisamente il 4 giugno 1989, Antonio
De Falchi, diciannovenne tifoso della Roma, viene massacrato di botte all’esterno
di San Siro e muore poco dopo d’infarto. Nell’arco degli anni si è
dunque avvertita l’esigenza di implementare ulteriormente la policy, ma
pur sempre all’interno del medesimo paradigma, con interventi sistematicamente
di tipo reattivo-impositivo, ora nella direzione di inasprire le pene già
previste, ora nella direzione di ampliare le misure e gli strumenti contro
la violenza negli stadi (es. flagranza differita).
Da un punto di vista
retrospettivo l’omicidio De Falchi assume un’importanza tutta particolare:
da quel momento in poi i disordini avvengono per lo più all’esterno
degli stadi. Se analizziamo i più gravi fatti di cronaca relativi
alla violenza negli stadi degli ultimi 20 anni, ci accorgiamo che pochissimi
si sono effettivamente verificati all’interno degli impianti. La storia
ci insegna che Vincenzo Spagnolo venne accoltellato fuori dal “Ferraris”
di Genova il 29 gennaio 1995. Sempre all’esterno dello stadio di Catania
perde la vita il 2 febbraio 2007 l’ispettore Raciti, mentre Gabriele Sandri
muore addirittura in un’area di servizio vicino Arezzo sull’A1 Milano-Roma.
Tuttavia l’impatto mediatico dei disordini all’interno degli stadi è
talvolta estremamente forte, a prescindere dalla gravità dell’accaduto.
I recenti episodi
di violenza si configurano tuttavia come l’emblema di un conflitto pervasivo
con le istituzioni stesse: agli scontri tra tifosi si sono sostituiti gli
scontri tra polizia e tifosi. Come non menzionare il “Derby del Bambino
Morto” giocato a Roma il 21 marzo 2004, caso unico al mondo nel quale la
psicologia di massa ha innescato un passaparola secondo cui un bambino
sarebbe stato investito da una camionetta della Polizia. La reazione rabbiosa
della maggioranza dei tifosi presenti quel giorno allo stadio portò
all’interruzione della partita e ad un bilancio di oltre 100 feriti tra
le forze dell’ordine. A nulla valsero gli appelli della questura di Roma
che negavano (a ragione) la veridicità del fatto . Raramente si
è osservata una tale sfiducia nei confronti di fonti ufficiali governative.
Altre volte, invece, è emersa una scarsa capacità di gestione
dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine: ci riferiamo agli
scontri avvenuti in occasione di Roma-Manchester dell’aprile 2007, scontri
che hanno quasi causato un incidente diplomatico tra Italia e Inghilterra
in vista della candidatura di Roma per l’assegnazione della finale di Champion’s
League 2009.
Tuttavia molte volte,
pur essendo noto che molte tragedie si sarebbero potute evitare se solo
gli impianti non fossero stati tanto obsoleti (vedi tragedia dell’Hillsborough
e la morte del tifoso napoletano Sergio Ercolano), poco è stato
fatto dal punto di vista legislativo in questa direzione: il gap è
evidente tra noi e gli altri stati europei per quanto riguarda la sicurezza
degli impianti. Riguardo a ciò, è bene ricordare che i principali
stadi italiani sono stati rinnovati -in maniera fallimentare - in occasione
dei Mondiali del 1990: solo pochi di questi possono dirsi oggi impianti
moderni.
E’ pertanto fondamentale
delineare un approccio storico nel dedicarsi ad un problema complesso quale
quello della violenza negli stadi, la cui complessità è legata
agli aspetti sociali, economici, politici e di diritto che lo caratterizzano.
2. PROCESSO DECISIONALE
2.1 AGENDA SETTING E ATTORI COINVOLTI
I tratti fondamentali
del processo decisionale relativo alle politiche italiane contro la violenza
negli stadi sono l’accentramento e la rigidità. L’agenda setting
è stata sempre in qualche modo “emergente”, o “congiunturale”: si
configura pertanto come il c.d. “outside initiation model”. I ‘policy cycles’
si allineano a quegli episodi di cronaca precedentemente citati, presentandoci
un quadro d’insieme non certo felice, data la reiterazione di problemi
e soluzioni di policy che sostanzialmente non cambiano. In questa prospettiva,
gli attori principali sono i media, nella doppia veste di ‘news taker’
e di ‘news maker’. Dunque le politiche hanno un approccio marcatamente
di problem-solving, mentre i restanti processi di formulazione, adozione,
attuazione e valutazione si caratterizzano per la loro reattività,
rapidità di esecuzione e centralità istituzionale. In tutto
distinguiamo 6 cicli di policy che rispondono ad altrettanti provvedimenti
legislativi che più avanti esamineremo in dettaglio: L. 13 dicembre
del 1989 n. 401 (DASPO), L. 24 febbraio 1995, n.45 ; 19 ottobre 2001, n.377
; 24 aprile 2003, n. 88 ; 17 ottobre 2005, n. 210 (legge Pisanu); Legge
del 4 aprile del 2007, n. 41 (legge Amato); a cui si accompagna la direttiva
del 14 agosto 2009 emanata dal Ministro dell’Interno Roberto Maroni relativa
alla c.d. “Tessera del Tifoso”.
I media giocano
dunque un ruolo fondamentale, configurandosi come portavoce dei ‘desiderata’
dell’opinione pubblica, agendo come gruppo di pressione e permettendo quell’allineamento
tra agenda sistemica-pubblica ed agenda formale-istituzionale. Si crea
sistematicamente, da venti anni, una situazione in cui il Ministro dell’Interno
appare nelle vesti di sceriffo chiamato a ristabilire la legalità
negli stadi. Eppure la persistenza della violenza negli stadi, e l’acuirsi
di un pericoloso conflitto tra il mondo delle curve e le forze di polizia,
gettano ombre sull’efficacia delle politiche e dell’intero
processo decisionale. Ciò avviene per due ragioni: la persistenza
di un paradigma di interpretazione del fenomeno sociale e l’immutabilità
dei sottosistemi di policy (di natura istituzionale), i quali in sede di
formulazione non hanno mai permesso un’apertura ai gruppi sociali coinvolti.
Gli attori principali
appartengono tutti alla sfera dell’amministrazione statale. Accanto all’esecutivo
(Ministero dell’Interno) e alle Questure o organi di polizia delle singole
città, troviamo l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive,
i cui poteri sono stati ampliati nel tempo, che delibera eventuali restrizioni
alla vendita di biglietti e svolge attività di monitoraggio e valutazione.
Accanto a questi organi vi sono Comuni e CONI, proprietari della maggior
parte degli stadi di calcio, e infine F.I.G.C. e Lega Calcio. Non risultano
coinvolgimenti di qualsivoglia associazione di tifosi in alcuna fase del
processo. Da menzionare infine Trenitalia, Società Autostrade e
Autogrill, stakeholders privati presenti all’interno dell’O.N.M.S. e il
Centro Nazionale di Informazione sulle Manifestazioni Sportive, “operativo
in seno all'Ufficio Ordine Pubblico della Segreteria del Dipartimento della
P.S., che svolge attività di raccolta, analisi ed elaborazione dei
dati relativi al fenomeno della violenza negli stadi, il cui risultato
è materia di esame settimanale in sede di Osservatorio Nazionale
sulle Manifestazioni Sportive” .
Il processo decisionale
ha sempre avuto un carattere piuttosto repressivo ed autoritario, legittimato
da un alto consenso pubblico. Attraverso rapidi decreti legge (Pisanu,
Amato etc.), il governo di turno, sia esso a maggioranza di sinistra o
di destra, con l’ausilio di flussi di informazioni interne, ovvero provenienti
dagli organi di polizia, legifera ciclicamente per ‘dare un segnale’ all’opinione
pubblica. Fallisce pertanto sistematicamente ogni sistema di coinvolgimento
delle parti sociali, ogni possibilità di collaborazione costruttiva
in sede di valutazione delle possibili opzioni di policy. Risulta evidente
la preminenza di una prospettiva temporale focalizzata sul breve termine,
propria di quella sfera politico-burocratica che è al centro dell’intero
processo decisionale.
2.2 IL QUADRO LEGISLATIVO
Il primo strumento
di repressione e prevenzione della violenza negli stadi venne creato nel
1989 (L. 13 dicembre del 1989 n. 401). Si chiama DASPO (acronimo di Divieto
di Accedere alle manifestazioni SPOrtive). Conosciuto anche sotto il nome
di “diffida”, il DASPO è un provvedimento amministrativo di durata
da 1 a 5 anni (dal 2007, mentre in precedenza la pena massima arrivava
a 3 anni) che eventualmente (si parla in questo caso di obbligo di firma)
obbliga il soggetto a presentarsi ad un ufficio di polizia due volte in
concomitanza temporale di ogni partita della relativa squadra di calcio
(vale a dire, se sei tifoso del Milan, sarai obbligato a presentarti presso
un ufficio di polizia ad ogni singola partita del Milan). Il provvedimento
è emesso unilateralmente dal questore in concomitanza con una denuncia.
Data l’immediata applicazione, si crea una curiosa situazione: il DASPO
viene scontato durante il processo, dunque prima ancora che il soggetto
abbia la possibilità di difendersi in giudizio. La corte costituzionale
ha definito il DASPO nella sentenza n.512 del 2002 tra le misure di prevenzione,
che dunque possono essere inflitte in attesa del processo. D’altra parte,
i tempi della giustizia italiana fanno sì che la diffida venga scontata
per intero prima ancora che il processo venga celebrato, rendendola potenzialmente
anticostituzionale, dal momento che compromette la libertà di circolazione
(art. 16 Costituzione).
Il secondo provvedimento
in ordine temporale è il decreto legge 22 dicembre del 1994, n.717,
poi convertito in legge 24 febbraio 1995, n.45. La legge sostanzialmente
introduce la possibilità di accompagnare al DASPO l’obbligo di firma
e il “Divieto alle società sportive di erogare contributi, sovvenzioni,
facilitazioni” ad associazioni di tifosi.
Il terzo provvedimento
(Decreto legge 20 agosto del 2001, n.336 seguito dalla conversione tramite
legge del 19 ottobre 2001, n.377) torna a modificare marginalmente la legge
n.401 del 1989 e la successiva n.45 del 1995. Viene introdotta la dizione
‘tenendo conto dell'attività lavorativa dell'invitato’ riguardo
all’obbligo di comparizione presso un ufficio di polizia in concomitanza
temporale con lo svolgimento della manifestazione sportiva. Viene inoltre
inserito l’art.6 bis relativo a “Lancio di materiale pericoloso, scavalcamento
e invasione di campo in occasione di competizioni agonistiche”.
Il quarto intervento
è il decreto legge 24 febbraio 2003, n. 28, convertito dalla legge
24 aprile 2003, n. 88. Viene modificato proprio l’art. 6 bis punendo in
questo caso il semplice possesso di artifizi pirotecnici con arresto ed
ammenda ed introducendo la famosa ‘flagranza differita’ in base alla
quale “entro le trentasei ore da episodi di violenza durante le manifestazioni
sportive, quando non e' possibile procedere immediatamente all'arresto
per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, potrà scattare
il fermo di polizia, sulla base di documentazione video fotografica o di
altri elementi dai quali emerge con evidenza il fatto.” Il provvedimento
contiene altre misure che in realtà non sono mai state applicate:
“I varchi d'ingresso dovranno essere forniti di metal detector per individuare
eventuali "strumenti di offesa". L'obbligo scatta dal 2005. La violazione
è punita con una multa fino a 25.822 euro.”
Il quinto è
intervento è la c.d. “legge Pisanu”. Questo pacchetto include numerose
nuove norme che qui elenchiamo brevemente:
- Estensione del
DASPO a chi commette reati in occasione di manifestazioni sportive all’estero
- Inasprimento delle
pene previste in caso di danni a persone o interruzione/sospensione della
partita
- Introduzione della
figura dello steward, equiparato a pubblico ufficiale, come assistente
che vigila sull’osservanza delle regole
- Capienza minima
per uno stadio di serie A di 10 mila persone
- Ampliamento dei
poteri in capo all’O.N.M.S.
- Installazione
di impianti di videosorveglianza in ogni stadio di serie A
- Istituzione dei
biglietti nominativi e divieto di vendita dei tagliandi all’esterno dello
stadio il giorno della partita
- Adeguamento degli
stadi agli standard europei
C’è da sottolineare
che quest’ultimo punto è stato disatteso nei fatti, attraverso la
concessione di deroghe a diversi impianti italiani. Non ha trovato riscontro
nemmeno l’obiettivo dell’abbattimento delle barriere tra il pubblico e
il campo da gioco.
Il sesto ‘ciclo’
legislativo è rappresentato dalla c.d. ‘legge Amato’. Si tratta
di una serie di misure di stampo esplicitamente repressivo concepite sull’onda
emotiva causata dalla morte dell’ispettore Filippo Raciti. Riassumiamone
i punti fondamentali:
- Le partite di calcio
negli stadi ‘non a norma, sono svolte in assenza di pubblico’. Fondamentalmente
questo adeguamento si è concretizzato nell’installazione di tornelli
all’esterno dello stadio per consentire l’ingresso degli spettatori, attraverso
biglietti muniti di codice a barre.
- Predisposizione
di un programma di iniziative nelle strutture scolastiche
- Il lancio o l’uso
di ‘oggetti idonei a creare pericolo per le persone’ (tra cui, si badi
bene, sono inclusi i fumogeni usati dalle curve di tutto il mondo per le
coreografie) è punito con la reclusione da 1 a 4 anni. Il semplice
possesso viene punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
- Viene introdotta
una nuova figura di reato aggravato (lesioni personali gravi o gravissime
ad un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di
manifestazioni sportive)
Infine troviamo la
c.d. ‘tessera del tifoso’ (direttiva 14 agosto 2009). Viene definita
“strumento di fidelizzazione”. E’ una tessera rilasciata dalla società
sportiva previo ‘nulla osta’ della Questura.
Ma a cosa da diritto?
- Il titolare della
card può avere accesso allo stadio anche nei casi di partite soggette
a restrizioni
- Creazione di corsie
preferenziali di accesso
- Promozioni presso
società collegate (Ferrovie dello Stato, Autogrill ecc.)
Uno dei vantaggi
che vengono menzionati è quello di impedire l’accesso agli
individui soggetti a DASPO. Tuttavia, è difficile non osservare
una sorta di contraddizione tra le diverse norme: come farebbe ad accedere
ad un impianto di calcio l’individuo soggetto a DASPO, se è previsto
l’obbligo di presentarsi due volte, ad ogni partita, presso un ufficio
di polizia? Infine si parla di creazione di una categoria di ‘tifosi ufficiali’,
quando non se ne vede la differenza con l’odierna categoria degli abbonati.
3. STRUTTURA, STILE, PROCESSO di POLICY
Ogni provvedimento
attuato nel corso degli anni emerge all’interno del medesimo paradigma
autoreferenziale. Lo stile resta reattivo per quanto riguarda l’approccio
di problem solving, mentre per quanto riguarda lo schema di relazioni con
i gruppi sociali è consensuale rispetto alla società nel
suo complesso, ed impositivo nei confronti della categoria di utenti-tifosi.
In quest’ottica restano immutati i principi di legalità, prevenzione
e repressione che innervano l’insieme di politiche contro la violenza negli
stadi. Soprattutto nella fase di formulazione è presente un unilateralismo
istituzionale di punti di vista che non sempre è efficace quando
si tratta di politiche che hanno a che fare con il sociale.
Gli strumenti utilizzati
sono stati prevalentemente di tipo coercitivo. Lo stato è presente
nel settore calcio come proprietario di impianti e garante dell’ordine
pubblico, assumendosi più responsabilità di quante potrebbe
effettivamente averne se adoperasse strumenti volontari, come il mercato.
Come si è visto, non manca una normativa severa e attenta. Le pene
sono state inasprite costantemente, ma più volte è sembrato
come se fossero armi spuntate. In realtà, l’applicazione delle norme,
cioè l’attuazione delle politiche, è spesso difficoltosa
per una serie di vincoli sostanziali, che vanno dalla gestione attenta
dell’ordine pubblico alla necessità di identificare i responsabili.
In questo senso, la legge Amato rappresenta pur sempre un tentativo di
diversificare i canali di azione, come dimostrano l’obbligo di dotarsi
di tornelli elettronici e le iniziative di sensibilizzazione nelle scuole.
Le procedure attraverso
cui si canalizza l’intervento del governo hanno come centro l’O.N.M.S.,
il braccio operativo dell’esecutivo. Questo organo ha ormai notevoli poteri.
Ogni settimana delibera le restrizioni alla vendita di biglietti di diverse
manifestazioni sportive per motivi di ordine pubblico. E’ composto prevalentemente
da funzionari di polizia, carabinieri e guardia di finanza, insieme ad
altri prevalentemente istituzionali.
L’approccio non
è mai stato risolutorio. Il cambiamento è stato incrementale,
in qualche modo del tutto focalizzato sulla risoluzione nel breve termine,
senza pensare ad una serie organica e strutturata di politiche concertate
tra Stato, Tifosi/Utenti e Società di calcio. Il principio è
stato porre fine ad una serie di violenze, non l’idea di cercare di ristabilire
un clima di sana competizione sportiva negli stadi, attraverso un sistema
di public policies che sia ora più flessibile ed ora inesorabile
nel colpire i responsabili di determinati atti. Il modello inglese dimostra
che la risoluzione del problema comporta uno spettro ampio di interventi,
che ruotano attorno ad un sistema giudiziario decisamente più efficiente.
In particolare non sono esplicitati gli obiettivi da raggiungere. Non esiste
un modo unico di determinare l’efficacia delle politiche. Da questo punto
di vista, gli obiettivi sono quelli comunitari genericamente espressi tramite
raccomandazioni. Ma oltre al consenso che devono riscuotere all’interno
della società, queste politiche dovrebbero pur sempre tutelare uno
spettacolo pubblico del calcio. Se manca questa dimensione negli obiettivi,
non c’è modo di riconoscere ex-post un non-successo della politica,
impedendo quel processo di apprendimento sociale del fenomeno necessario
per applicare le giuste leve.
In linea generale
sono assenti i meccanismi di responsabilizzazione. Tifosi, società,
forze dell’ordine, non rispondono adeguatamente delle proprie azioni, a
discapito della società civile (ma anche dei valori morali). Perciò
dovremmo parlare di gap normativo. Sebbene molte azioni concrete siano
state fatte in questi termini, a livello operativo non è detto che
siano il miglior sistema di controllo dell’ordine pubblico. Il DASPO è
uno strumento che manca del tutto di flessibilità, e viene anche
applicato in maniera “anomala”, se pensiamo al caso di una rissa in campo
tra giocatori ed una rissa sugli spalti tra tifosi. I biglietti nominativi
si sono rivelati inizialmente uno strumento facilmente aggirabile (vedi
servizi de ‘le Iene’), e comunque non risolvono il problema dell’identificabilità
(ancor più se pensiamo al fatto che la maggioranza degli incidenti
avvengono all’esterno degli impianti).
L’ultima politica
in ordine temporale attuata per contrastare il fenomeno, ovvero quella
relativa alla Tessera del tifoso, rappresenta un decisivo passo avanti
nel tentativo di decentrare il più possibile i rapporti con gli
utenti-tifosi. In generale la gestione dei rapporti necessita di
una normativa che tuteli le società da possibili ricatti o eccessive
responsabilità. Tuttavia un dialogo è strettamente necessario,
almeno con le ‘parti sane’ del tifo. Il problema è appunto definire
chi sia tifoso e chi teppista.
4. RACCOMANDAZIONI
di POLICY
Per quanto riguarda
lo studio del caso italiano, non vi è possibilità di decretare
oggettivamente il successo di queste politiche. Innanzitutto dovremmo stabilire
dei criteri precisi: ma questo è compito di qualcun altro, dal momento
che l’obiettivo del presente lavoro è un’analisi politica del caso.
Il dato di fatto è che una diminuzione concreta degli scontri si
è avuta solamente con la chiusura dei settori ospiti o con deliranti
restrizioni alla vendita (che colpiscono in maniera indiscriminata tutti
i consumatori). D’altro canto, non bisogna nemmeno pensare che questo sia
un fenomeno recente. E’ una pura illusione, nel senso che i fatti dimostrano
che attraverso dinamiche simili, la violenza negli stadi si ripete da almeno
30 anni. Durante questo periodo, il policy-making è rimasto sostanzialmente
inalterato. Il fallimento delle politiche risiede, a mio avviso, nelle
esternalità negative a carico della stragrande maggioranza dei tifosi.
Non vi è mai stata sintonia né con le società di calcio
né con gli utenti-tifosi. E’ mancata una prospettiva d’insieme,
forse a causa di una carenza di competenze e/o un gap informativo generato
dall’accentramento dei poteri e delle decisioni. Troppi poteri sono concessi
ai funzionari di polizia a discapito di una gestione decentralizzata (e
privatizzata) più attenta, più vicina, più flessibile.
Nonostante l’acutizzarsi di un sostanziale conflitto tra chi vive le curve
(che fino a prova contraria è un semplice tifoso) e i funzionari
dell’ordine pubblico, niente è stato fatto nella direzione di un
raffreddamento dei toni. Ad esempio, è sconcertante il fatto che
l’Italia sia uno dei pochissimi paesi occidentali i cui agenti anti-sommossa
non abbiano dei numeri identificativi sull’uniforme.
Chiudere gli impianti,
limitare la vendita ai soli residenti della regione o chiudere determinati
settori non è una soluzione, ciò è evidente. A pensarci
bene è addirittura umiliante: è una sconfitta per la società
nel suo insieme.
Si parla spesso di
modelli spagnoli o inglesi come esempi virtuosi da seguire. In realtà
non ci si rende conto delle specificità socio-culturali di questi
paesi. Per quanto riguarda il caso spagnolo, non è mai esistito
né un movimento ultras né qualsiasi fenomeno di ‘hooliganismo’.
E’ completamente diverso il modo di vivere il calcio. Per quanto riguarda
l’Inghilterra, l’argomento è dibattuto. Non mancano oggi fenomeni
di violenza in ambito europeo, né in ambito nazionale. Spesso, gli
incidenti si sono spostati all’esterno degli impianti, seppur con una frequenza
decisamente minore. Inoltre, dal punto di vista storico, in Inghilterra
si è avuta una stagione di vere e proprie stragi, cosa che ha portato
ad una serie di politiche di ampio respiro basate su due pilastri: stadi
di proprietà e sistema giuridico efficiente. Pertanto, è
da ingenui concentrarsi sulla semplice importazione di un metodo o di un
modello appartenente ad un paese. Dobbiamo innanzitutto concentrarci sull’ambiente
italiano.
E’ priorità
inderogabile facilitare in ogni maniera possibile la creazione di nuovi
impianti di proprietà. In Italia soltanto la Juventus ha avviato
i lavori per la costruzione di un nuovo stadio, mentre nel frattempo restano
in piedi impianti a dir poco fatiscenti (Cagliari, Siena, Firenze ecc.).
Uno stadio di proprietà significa responsabilizzazione dei privati
per la gestione dell’ordine pubblico, aumento della solidità patrimoniale
delle società di calcio, creazione di poli multifunzionali a vantaggio
delle città stesse. In questo senso il modello inglese è
davvero un modello all’avanguardia. Tuttavia, come già detto, si
tratta di un modello contingente: in Inghilterra esistono solo stadi con
posti a sedere, e tutti stanno seduti. In Italia uno dei pochissimi stadi
con solo posti a sedere è l’Olimpico di Roma, e nelle curve nessuno
è seduto. Queste sottili differenze comportamentali devono essere
attentamente valutate: infatti è indubbia la complessità
della questione.
Attraverso pressioni
da parte della società, tuttavia, si sono fatti passi avanti nella
direzione di un adeguamento degli impianti italiani agli standard di sicurezza.
Continuando su questa strada, in futuro potremo sperare in un ammodernamento
degli impianti. Alcuni stadi presentano difficoltà di gestione dell’ordine
pubblico proprio in virtù della presenza di barriere architettoniche.
In questo senso, è auspicabile il definitivo ‘passaggio di proprietà’
degli stadi, dalla sfera pubblica a quella privata.
Allo stesso tempo,
vi è necessità di implementare un sistema credibile di gestione
dell’ordine pubblico per le trasferte. Questo pone rilevanti difficoltà
logistiche; tuttavia si potrebbe pensare ad una serie di partnership tra
società di calcio, Comuni e organi istituzionali.
Un problema di fondo
è costituito dalla non chiarezza dell’oggetto delle misure varate.
Di conseguenza, è complesso definire i rapporti causa-effetto relativi
al problema in questione.
Si parla di ‘isolare’
o ‘identificare’ i violenti. Tutto ciò non è mai avvenuto
e difficilmente avverrà in futuro. Senza una distinzione netta tra
teppista e tifoso come è possibile concepire politiche efficaci?
Senza riconoscere precedentemente il valore sociale della curva come luogo
di aggregazione, in che modo possiamo delineare il confine tra tifo ‘sano’
e tifo ‘violento’?
Non esiste cioè
un sistema pre-ordinato attraverso cui interfacciarsi con i gruppi di tifosi
organizzati, i quali in realtà, in virtù della loro organizzazione,
potrebbero risultare interlocutori con i quali aprire un negoziato su quegli
aspetti sani del tifo (come gli striscioni, le bandiere, i fumogeni, le
coreografie...) che devono esserci all’interno di un quadro di legalità.
E ancora, se gli
episodi di violenza non sono estranei nemmeno a quei settori ‘VIP’ dello
stadio (vedi Roma-Dinamo Kiev del 15 Settembre 2004 , quando venne colpito
l’arbitro da un oggetto lanciato dalla Tribuna Monte Mario) come negare
una deriva violenta trasversale ai ceti sociali della nostra società?
Questa deriva è in atto da decenni, e non fa parte di un determinato
periodo storico. Banalmente, la violenza è pur sempre umana.
“Aprire” alcuni
passaggi cruciali del processo di policy (quali la formulazione o la valutazione)
a determinati gruppi sociali, avrebbe eventuali vantaggi da non sottovalutare.
La realtà operativa non è una scienza esatta, ma usare esclusivamente
strumenti coercitivi di regolazione, mettendo in mano agli organi di polizia
poteri smisurati, se rapportati alla sfera delle libertà individuali,
non mira ad una risoluzione pacifica della vicenda in esame. In questa
maniera è naturale che non vengano tutelati gli utenti- tifosi che
si comportano in maniera civile. Attraverso provvedimenti indiscriminati
o potenzialmente anticostituzionali come il DASPO, si scoraggia il tifo
sano, si ostacolano le famiglie dall’andare allo stadio (ad es. oggi è
impossibile comprare un biglietto all’esterno dello stadio il giorno della
partita), si aumenta la tensione ed infine si mobilitano un numero crescente
di agenti quando è politicamente impossibile chiudere determinati
settori dello stadio . Il biglietto nominativo poteva risultare uno strumento
di fidelizzazione del tifoso, ci si poteva avvicinare al famoso modello
di public company del Barcellona, ma è rimasto un semplice metodo
di identificazione, peraltro di dubbia utilità. Dunque da parte
delle istituzioni non vi è alcun tentativo di usare gli stessi gruppi
organizzati anche come argine ad una violenza cieca che non ha centri di
aggregazione (come le BR, i Black Block ecc.). La risposta è la
chiusura dei settori, che è esattamente ciò che non ha senso
fare: cosa sono gli stadi senza tifo? Si rimuove il problema. E’ l’Italia
che riconosce l’impossibilità di gestire l’ordine pubblico per una
partita di calcio .
Bibliografia:
- Wikipedia
- asromaultras.org
- repubblica.it
- info-legal.it
- M.Howlett e M.Ramesh
“Come studiare le politiche pubbliche” , il Mulino 2003
- Osservatoriosport.interno.it
- Italigiure.giustizia.it