I BULLI DELL'OTTOCENTO
LE SASSAIOLE
Ancora alla fine dell’Ottocento si combattevano
fra rione e rione furiose battaglie con i sassi. Era uno
sfogo, una valvola di sicurezza per calmare i bollenti
spiriti dei bulli e bulletti romani, dai più piccoli, ai
giovanotti, agli uomini maturi. La sassaiola, per i romani
di allora, era il corrispettivo della partita di calcio
domenicale, sembrava che non se ne potesse fare a meno,
serviva a scaricare gli istinti di violenza e di potenza di
un popolo focoso e fiero, dal temperamento aggressivo, che
non poteva stare tanto tempo senza attaccare “buglia”, senza
menar le mani. Le squadre rivali si affrontavano come in un
campo di battaglia, si circondavano, catturavano ostaggi da
una riva all’altra del Tebro.
Ma il campo di battaglia preferito per le
sassaiole dei bulletti di Trastevere, Regola, Monti, sempre
in guerra fra loro come cani e gatti era sempre il Foro
Romano, detto “Campo Vaccino”, intorno a un abbeveratoio
ricavato da un’enorme vasca di granito, trovata sotto la
statua di Marforio, conservata oggi in Campidoglio e
famosa come “statua parlante”, interlocutrice di quella, più
celebre, di Pasquino La pregevole vasca di granito fu poi
destinata da Pio VII a vasca di fontana sotto i cavalli dei
Dioscuri, sul Quirinale. Queste sassaiole però avvenivano
anche a S. Cosimato, a vicolo del Cedro, al Testaccio, al
Mattatoio.
IL SANGUE D'ENEA
Non si può capire il complesso di superiorità del
bullo, che si sentiva “sangue troiano”, “sangue d’Enea”,
depositario della gloria dell’antica Roma, se non si pone
mente al complesso di superiorità di tutto il popolo romano,
un popolo su cui scrissero nei loro diari e resiconto di
viaggio i maggiori letterati e scrittori d’Europa, Goethe,
Stendhal, Gregorovius, Gogol’ .... il popolano di Roma, con
tutti i suoi difetti e la sua rozza e vioenta indole,
affascinava lo straniero, che ne ammirava la dignità dei
gesti e la scultorea bellezza dei tratti, così bene
illustrati ed esaltati dal bulino di Bartolomeo Pinelli. E
fra tutti eccellevano, per austerità di portamento e
prestanza fisica, i trasteverini, depositari di una
tradizione millenaria di fierezza e orgoglio municipale, che
dava i loro movimenti e ai loro gesti una sorta di
teatralità istintiva, come se recitassero una loro parte
drammatica dinanzi al forestiero ammirato e compiaciuto.
LI MORTI AMMAZZATI
"Era tanta e accusì intartarita, a Roma, l’usanza
de scannasse come crapetti, che, speciarmente la festa, in
ogni Uriòne, ce scappaveno diversi ammazzati, sei, sette,
otto.... Tant’è vero che se metteveno in un locale de la
parocchia che se chiamava “lo sfreddo” -, e tutti pe’
curiosità se l’annaveno a gustà.
M’aricordo che infinenta li regazzini diceveno ar
padre: <<A Tata, me porti a vedé quanti so’ stati oggi
l’ammazzati?>>.
Appena succedeva una lite, se lì accanto c’era un
fornaro, annisconneva subbito li cortelli sotto ar bancone:
perché si uno de li litiganti nun se trovava er cortello in
saccoccia, co’ la scusa de fasse da’ un sordo de pane, lo
sfilava da le mano der fornaro, e scappava.
Quello che ammazzava, ci aveva sempre raggione: er
morto se l’era sempre meritato. Un proverbio nostro,
infatti, dice:
Nun dite pover’uomo a chi more ammazzato:
perché si ha fatto er danno l’ha pagato.
Quanno arrivava la giustizia sur posto, gnisuno
sapeva gnente, gnisuno aveva visto gnente. Nemmeno quelli
che avevano aiutato l’assassino a fugge, e che magari
j’avevano dato ricètto a casa. Guasi sempre er padre, er
fratello, er fijo, o er zio der morto, se faceveno giustizia
da loro ammazzanno, lì pe’ lì, quello che aveva ammazzato, e
tutto finiva pe’ la mejo. Nun s’ammazzava mai antro che pe’
gelosia de donne, p’er gioco, per odio o pe’ vennetta, per
una parola mar capita, per un gnente. Ma nun c’era caso che
s’ammazzava mai quarcuno pe’ rubballo. Li ladri ereno
perseguitati e mar visti puro da li popolani.
De notte, a qualunque ora, potevio anna’ in
giro pe’ li vicoli più anniscosti de li Monti e de
Trastevere, portanno addosso tutto l’oro der monno, che
gnisuno ve diceva gente".
(Tradizioni popolari romane, Giggi Zanazzo,
Torino-Roma, 1907)
ER CORTELLO
"Er cortello, pe’ li Romani der mi’ tempo, era
tutto, era la vita! Se lo tieneveno in saccoccia, magari
assieme a la corona, e ogni tanto se l’attastaveno pe’ vede
si c’era sempre, e se l’accarezzaveno come si fussi stato un
tesoro.
Pe’ loro er cortello era un amico che nu’ li
lassava ma nì la notte, nì er giorno. La notte sotto ar
cuscino, er giorno in bèrta [in tasca]. De quanno in quanno
lo cacciaveno fòra, l’opriveno, l’allustraveno,
l’allisciaveno, e magari se lo baciaveno.
E se lo baciaveno davero, si su la lama
sbrilluccicante, ce stava scorpito er nome de l’innamorata,
come presempio: <<Nina, ‘Nunziata, Rosa,
Crementina>>, oppuramente: <<Amore mio>>,
<<còre mio>>, <<stella mia>>,
<<pensiero mio>>.
Perché allora c’era l’usanza che, ammalappena una
regazza se metteva e fà l’amore, la prima cosa che arigalava
ar su’ regazzo era er cortello. Anzi, a ‘sto preposito,
sempre a tempo mio, veh!, una Trasteverina, una Monticiana,
una Regolante, sposava controggenio un giovinotto che in
tempo de vita sua nun avesse avuto che fa’ co’ la giustizia
o nun avesse mai messo mano ar cortello. Era un vijacco, una
carogna. Era ‘na cosa nun troppo pe’ la quale, voi me
direte: ma che ce volete fa’? La moda era accusì! "
(Tradizioni popolari romane, Giggi Zanazzo,
Torino-Roma, 1907)
"FORA ER CORTELLO!"
Basta un’occhiata “storta”, o il guardare dritto
negli occhi, o un minimo urto con il gomito, o una parola di
troppo, o la voce appena un po’ troppo su di tono, o il vino
versato <<a tradimento>>, cioè alla rovescia, o
la stretta di mano un po’ <<moscia>>, e anziché
gettare il guanto, l’<<offeso>> gettava lì due
parole: <<Fora er cortello>>. La sfida era
lanciata, non si poteva tornare indietro, né lo sfidante né
lo sfidato. Chi si ritirava, e non accettava la sfida, era
finito per l’<<onorata società>> dei bulli. Il
<<codice d’onore>> dei bulli era sacro, chi non
osservava la legge dell’omertà, che imponeva al bullo di non
rilevare mai il nome di chi lo aveva accoltellato, poiché
poi ci avrebbe pensato lui a regolare i conti, era segnato a
dito, e, specialmente se faceva <<la luna co’ la
giusta>>, cioé la spia, pagava con lo sfregio sulla
faccia, che lo avrebbe bollato per tutta la vita come
<<spione>>. Giurare sull’onore valeva più di
qualsiasi garanzia, e chi mancava di parola era bollato.
Qualsiasi gesto, o frase, o allusione che ledesse
l’<<onore>> di un bullo, dovevano essere lavati
col sangue.
ER DUELLO
Lo svago festivo dei bulli erano proprio le
schermaglie al coltello con i bulli degli altri rioni.
Anziché la partita a pallone si faceva la partita
al coltello, naturalmente con la <<sicura>>: una
cordicella che avvolgeva la lama fino a lasciarne scoperta
solo la punta, appena un centimetro per la
<<puncicata>>, per la <<toccatina>>.
Con la <<raspa>> (giacca) avvolta sul
braccio, a mo’ di scudo, i bulli rivali si affrontavano in
questi duelli sportivi al primo sangue, mentre gli amici
facevano circolo e contrappuntavano con mormorii di
approvazione le mosse e le stoccate ben riuscite.
Ma l’università del coltello era Regina Coeli,
dove i bulli in catività, per non perdere l’allenamento, si
esecitavano ogni giorno, nell’ora d’aria, dello
<<spasseggio>> alla <<puncicata>>.
Usavano a mo’ di coltello gli scopettoni delle latrine o le
spazzole, la cui punta veniva intinta nella calcina delle
sputacchiere, perché ogni colpo andato a segno lasciasse
l’impronta bianca. E ogni segno di calce era un sigaro
toscano per il <<feritore>>.Una giuria faceva da
arbitro agli incontri, mentre uno di loro segnava i punti.
In questo modo i bulli carcerati per rissa non
perdevano l’allenamento e quando tronavano in libertà erano
pronti per altri scontri, per altri duelli.
Uno dei divertimenti più plateali di un bullo in
vena di prepotenze era l’<<abbottata>>. Se
qualcuno gli stava sul naso o gli era antipatico, o gli
aveva fatto un torto presunto, davanti a tutti, gli
ingiungeva minaccioso: <<Abbottete>>. E il
poveretto, se non era uomo da competere con lui con il
coltello, doveva... abbozzare, cioè
<<abbottare>> le gote, gonfiandole in modo che
il bullo gliele potesse sgonfiare con uno sganassone, fra le
risate dei presenti. E così, dopo averlo “sbottato” lo
lasciava andare.
Fino agli anni ‘50 erano ancora vivi a Roma i più
bei nomi delle <<ghenghe>> di Monti, Trastevere,
Regola, Testaccio: er Porchetta, la Rosina, er Gringa, Toto
detto Botti, er Cechetta, Pallone er Fagocchio, Arfredone,
Brugnoletto, Er Porpo, Giggiotto, er Zeppa, Morbidone,
Otello de San Lorenzo, Mignottella, Umbertone. Ansermuccio,
er Cicoriaro, Serafino, er Pomata, er Pingiotto. E, fra i
bulli più rinomati, Augusto Negri detto er Manciola.
"TE METTO LE BUDELLA 'N MANO"
Sia i registri degli Ospedali di S. Spirito e
della Consolazione, sia i verbali dei Commissariati di
Pubblica Sicurezza erano pieni zeppi di referti e rapporti
su ferimenti, ammazzamenti e vere stragi, che avvenivano a
Roma, specialmente nelle osterie o nei loro pressi, e
specialmente di Sabato. Certi referti medici parlano di
laparotomia, di budella fuoriuscite dallo squarcio inferto
da una coltellata di operazioni chirurgiche in extremis
effettuate dagli abili medici del Pronto Soccorso, ormai
abituati a questi interventi, per ricucire alla bene e
meglio le spaventose ferite da coltello e da pugnale, o da
punteruolo, che questi energumeni si procuravano nei
continui duelli e <<questioni>>.Non c’era
giorno, si può dire, che i chirurghi non avessero qualche
lavoretto da fare, per strappare alla morte qualche bullo
che aveva avuto una <<questione>>. E non c’era
bullo che si rispetti che non avesse avuto in vita sua, vita
breve per lo più, almeno una mezza dozzina di duelli e
<<questioni>>, quando non erano trenta come nel
caso di Pietro, scalpellino della Regola, morto
eccezionalmente a 55 anni per una coltellata più precisa
delle altre.
Da un elenco di morti ammazzati della
Domenica si possono tirar fuori, in tanti anni di epopea dei
bulli, centinaia di nomi e soprannomi, che sembrano
inventati da uno sceneggiatore di film sulla malavita: er
Torello, er Facocchio, er Barbieretto, er Pizzuto, er
Pittoretto, Jabbanda, er Burinello, er Tarmato, Cajo de
Ponte, er Gramicetta, er Musetta, er Capo Rabbino, er
Cercina, er Capoccione, er Zeppa, er Pajetta, er
Ciripicchiola, Stivalone, er Framicitto, Nino er Boja,
Ettorone dell’Ammazzatora, di Testaccio, e mille altri ...
tutti, più o meno, morivano giovani, a 30, a 35, a 40 anni,
per una <<questione>> nata da un futile motivo,
o da un puerile puntiglio.
Carl Heinrich Bloch, "Osteria
romana" 1866.
Museo di Belle Arti, Copenaghen
Da "I Bulli di Roma" di Bartolomeo Rossetti.
Alcune cose - per similitudine - sono sorprendenti con i
giorni nostri:
I TORNELLI
"Ci provò Papa della Gena, Leone XIII, con una
massiccia campagna di editti miranti ad ammansire i troppo
bollenti spiriti dei suoi sudditi. Famoso l'editto che
imponeva alle osterie, maggiore teatro di risse e
accoltellamenti, di porre davanti all'ingresso il
"cancelletto", per impedire ai clienti di entrare e di
sostare nell'interno: si poteva solo comperare il vino a
portar via o la "foglietta" da bere in piedi, per poi
andarsene subito dopo bevuto. Leone XIII proibì anche la
"giostra delle vaccine" e la famosa "sassaiola", che per
antica tradizione si combatteva ogni pochi giorni fra
monticiani e trasteverini al Campo Vaccino .... e
sembrerebbe che questi drastici provvedimenti avessero un
po' ammorbidito gli animi, dal momento che, già al tempo
di Pio IX, i soliti nostalgici del tempo antico
rimpiangevano le vecchie usanze. Fra questi una
nobildonna, anziana ma ancora vispa, che la mattina,
affacciandosi alla finestra in cuffia da notte, per prima
cosa domandava ai suoi staffieri, giù in cortile: "Quanti
feriti sono stati portati stanotte alla Consolazione?". E
se quelli rispondevano "Nessuno, Eccellenza",
la vecchia nobildonna si ritirava delusa dicendo: "Eh!
Li romani so' diventati femminucce, nun so' più quelli dei
tempi miei".
E William Story, un inglese completamente
romanizzato,, autore di un libro pieno di notizie e fatti
e fattacci della Roma del primo Ottocento, Roba di
Roma, le dava ragione: "E' vero, non sono più
quelli di una volta: le lotte con i tori, le giostre, le
sassaiole son finite, i ferimenti di coltello diminuiscono,
gli spari di fucile dalle finestre il sabato santo scemano
d'intensità ogni anno: non si scannano più le bestie in
strada, le donne cominciano a coprirsi con le detestabili
cuffie francesi e a lasciare i loro bellissimi costumi.
Portantine non se ne vedono quasi più; tutti vanno in
carrozza, solo gli infermi sono trasportati in barella; e un
po' per volta, se le cose seguitano a questo modo,
spariranno, Dio liberi, perfino le prigioni, i banditi e
all'ultimo, chissà, il Papa stesso".
GLI SCONTRI
Goffredo Ciaralli su "Strenna dei romanisti" del
21 aprile 1948, su una "sassaiolata" di fine Ottocento:
"Lo scontro veramente violento, avvenne
sul Lungotevere a quell'ora deserto, Se noi eravamo un
numero rilevante, i Regolanti non erano molti di meno. I
sassi volavano rapidi, si udiva il loro correre sul duro
sterrato, udivamo il loro sibili e spesso ci sfioravano il
viso.. Era notte, circa le dieci, e di notte le sassaiole
erano più pericolose perché non si poteva veder giungere
il sasso e schivarlo. In breve restammo padroni del
porticato, che fu la nostra roccaforte momentanea. Eravamo
numerose e piccole ombre, folletti danzanti da un punto
all'altro della strada. Non avresti udito un grido neanche
da parte dei colpiti. Ci allargammo verso il muraglione
del Tevere, mentre i Regolanti si incuneavano per via
degli Strengari. Ancora qualche violento sasso tornò a
colpire il muraglione facendo sprizzare faville, poi i
Regolanti principiarono ad indietreggiare, le loro sassate
cessarono di intensità. Fu forse un loro attimo di
debolezza che c'incoraggiò, ed infatti come una valanga
l'incalzammo per via degli Strengari e quivi dopo una
debole difesa, l'investimento da parte nostra fu
formidabile. Un attimo d'inferno, il fanatismo giunto al
parossismo. Tutta via degli Strengari fu investita dalla
sassaiola. Un'osteria sul cantone fu colpita violentemente
e le sue vetrate andarono in frantumi, e avvenne uno
scompiglio nell'interno. Furono chiuse frettolosamente le
porte. I vetri delle finistre delle case, moltissime
andarono in pezzi... e poi lo sbandamento, la fuga dei
Regolanti fu generale. L'inseguimento fin nel cuore della
Regola, a piazza San Paolino. Ma ci affrettammo a nostra
volta a correre e metterci in salvo, anche noi sbandati, e
alla spicciolata e per diverse vie, rientrammo in
Trastevere. Dopo il primo momento di sopresa, era
inevitabile la reazione non dei ragazzi ma dei grandi del
rione Regola, degli abitanti stessi, ed infine c'era da
aspettarsi, se pure in ritardo, l'intervento delle
guardie".
LI MORTI AMMAZZATI E L'OMERTA'
Giggi Zanazzo in Tradizioni popolare romane:
L'AMMAZZATI DE LA DOMENICA
Era tanta e accusì intartarita, a Roma,
l'usanza de scannasse come crapetti, che, speciarmente la
festa, in ogni Uriòne, ce scappaveno diversi ammazzati,
sei sette otto... Tant'è vero che se metteveno in un
locale de la parrocchia che se chiamava "lo sfreddo", e
tutti pe' curiosità se l'annaveno a gustà. M'aricordo che
infinenta li regazzini dicevano ar padre: "A Tata, me
porti a vedé quanti so' stati oggi l'ammazzati?". Appena
succedeva una lite, se lì accanto c'era un fornaro,
anniscondeva subbito li cortelli sotto ar bancone: perché
si uno dei litiganti nun se trovava er coltello in
saccoccia, co' la scusa de fasse dà un sordo de pane, lo
sfilava da le mano der fornaro, e scappava. Quello che
ammazzava, ci aveva sempre raggione: er morto se l'era
sempre meritato. Un proverbio nostro, infatti, dice:
Nun dite pover'uomo a chi more ammazzato:
perché si ha fatto era danno l'ha pagato.
Quanno arivava la giustizia sur posto, gnisuno
sapeva gnente, gnisuno aveva visto gnente, Nemmeno
quelli che avevano aiutato l'assassino a fugge, e che
magari j'avevano dato ricetto a casa. Guasi sempre er
padre, er fratello, er fijo, o er zio der morot, se
faceveno giustizia da loro ammazzanno, lì pe' lì, quello
che aveva ammazzato, e tutto finiva pe' la mejo. Nun
s'ammazzava mai antro che pe' gelosia de donne, per odio
e pe' vennetta, per una parola mar capita, per un
gnente. Ma nun c'era caso che s'ammazzava mai quarcuno
pe' ruballo. Li ladri ereno perseguitati e mar visti
puro da li popolani. De notte, a qualunque ora, potevio
annà in giro pe' li vicoli più anniscosti de li Monti e
de Trastevere, portanno addosso tutto l'oro del monno,
che gnisuno ve diceva gnente.
I COLTELLI
Giggi Zanazzo in Tradizioni popolare romane:
"Er cortello, pe' li Romani der mi' tempo, era
tutto, era la vita! Se lo tieneveno in saccoccia, magari
assieme a la corona, e ogni tanto se l'attastavano pe'
vede si c'era sempre, e se l'accarezzaveno come si fussi
stato un tesoro. Pe' loro er cortello era un amico che nu'
li lassava mai nì la notte, nì er giorno. La notte, sotto
ar cuscino, er giorno in bèrta (in tasca). De quanno in
quanno lo cacciaveno fòra, l'opriveno, l'allustraveno,
l'allisciaveno, e magari se lo baciaveno.
E se lo baciaveno davero, si su la lama
sbrilluccicante, ce stava scorpito er nome de
l'innamorata, come presempio: "Nina, 'Nunziata, Rosa,
Crementina", oppuramente: "Amore mio", "Còre mio", "Stella
mia", "Pensiero mio".
Perché allora c'era l'usanza che,
ammalappena una regazza se metteva e fà l'amore, la prima
cosa che arigalava ar su' regazzo era er cortello. Anzi, a
sto' preposito, sempre a tempo mio, veh!, una
Trasteverina, una Monticiana, una Regolante, sposava
controggenio un giovinotto che in tempo de vita sua nun
avesse avuto a che fà co' la giustizia o nun avesse mai
messo mano ar cortello. Era un vijacco, una carogna. Era
una cosa nun troppo pe' la quale, voi me direte: ma che ce
volete fa? La moda era accusì!".
LA SFIDA AI DIVIETI
Nel luglio del 1905 la polizia proibì nei locali
di divertimento i canti malandrini, ed ecco che nacque la
celebre canzone malavitosa:
O giovanotti de la malavita
nun se po' più canta gira la rota
nun se po' più canta gira la rota
perché er Questore ce l'ha provibbita.
Gira la rota, gira
la rota der calesse.
'sta cosa nun po' esse,
l'avemo da cantà.
I CANTI/SLOGAN
Sullo schema del canto/slogan (ovunque noi
andiamo-la gente vuol sapere-chi noi siamo-glielo diciamo-
chi noi siamo: siamo gli ultras del ......"
"Se sente mormorà,
e chi so' questi qua?
Semo de San Lorenzo e ce sapemo fà.
San Lorenzo è quela cosa,
che se chiama prepotenza,
ecco qua tutta la lenza,
che ci à voja da mena"
"GIRA LA ROTA"
Amore, amore, manname 'na pagnotta
che er vitto der Coeli nun m'abbasta.
Che er vitto der Coeli nun m'abbasta.
Se nun te sbrighi me ce trovi l'ossa.
E gira e fai la rota
qui dentro rinserrato,
si nun me viè' l'aiuto,
rimano senza fiato.
Giovenottini de la malavita,
nun lo cantate più gira la rota.
Nun lo cantate più gira la rota,
perché er governo ve l'ha proibita.
E gira e fai la rota,
la rota del carretto,
allegri giovenotti,
hanno ammazzato er macellaretto.
Dentro Reggina Coeli c'è 'no scalino,
chi nun salisce quello nun è romano.
Chi nun salisce quello nun è romano,
nun è romano né tresteverino.
E gira e fai la rota,
la rota e la rotella,
davanti a Reggina Coeli
cianno messo la sentinella.
E lo mio amore sta a Reggina Coeli,
portateje da pranzo borzaroli.
Portateje da pranzo borzaroli,
che quanno sorte lui lo porta a voi.
E gira e fai la rota,
la rota del 31,
quanno stai carcerato
nun te cerca più nisuno.
Amore mio, leggeteve 'sta nota,
io nun la vojo fa' la malavita.
lo nun la vojo fa' la malavita,
la malavita è proprio scellerata.
E gira e fai la rota,
la rota de li Castelli,
lassali quelli bulli
e butta li cortelli.
Er bene che te vojo nun te dico,
a Ponte te vorei vedé' impiccato.
A Ponte te vorei vedé' impiccato,
la testa rivortata pe' Panico.
E gira e fai la rota,
la rota der tranvai,
se a Ponte ci aritorni
nun ce ritorni mai.
Trastevere co' Ponte e Porta Pia
fecero l'alleanza co la galera.
Fecero l'alleanza co la galera,
Trastevere svagò fece la spia.
E gira e fai la rota,
la rota de li puliziotti,
co' le vostre castagnole
ce faremo li bocconotti.
"Un Privileggio"
(G.G. Belli, 5 dicembre 1832)
Da cristiano! Si moro e po' rinasco,
pregh'Iddio d'arinasce a Roma mia.
Vamm'a cercà un paese foravia
dove se vòti com'a Roma er fiasco!
Vamm'a cercà per monno 'st'aricasco
de poté fa' un delitto chicchesia,
e poi trovà 'na chiesa che te dia
un ber camicio bianco de damasco.
L'hai visto a San Giovanni Decollato
quello, che fece a pezzi er friggitore,
come la Compagnia l'ha libberato?
L'hai visto co' che pompa e co' che onore
annava in pricissione incoronato,
come potrebb'annà l'imperatore?