INTERVISTA
Il calcio business, tutto soldi e "fame di vittoria", persone come Astutillo
Malgioglio non le vuole, non sa che farsene, anzi ne ha paura. Di sicuro non
se le merita. La voce bassa, le parole piene d'amarezza. Malgioglio, 43 anni
ex portiere di Brescia, Roma, Lazio, Inter e Atalanta, racconta la sua
storia. Da giocatore ha sempre diviso il suo tempo tra i campi di calcio e
l'aiuto ai bambini disabili. Un impegno costante che lo portò ad aprire un
centro di recupero a Piacenza, città dove è nato e adesso vive. Terminata la
carriera si è dedicato totalmente ai bambini handicappati, ma da un anno è
stato costretto a chiudere la palestra per mancanza di fondi. "Hanno vinto
loro. Mi hanno battuto. Da giocatore ho lottato tutti i giorni, per
continuare ad aiutare chi, al contrario di noi calciatori, non potrà correre
mai. Adesso che sono un ex, non ho più frecce nel mio arco, né forza per
combattere. Quello del calcio è un mondo senz'anima. Gira solo intorno a se
stesso e ai suoi piccoli drammi della domenica; ogni voce fuori dal coro è
un pericolo. E quando smetti, si spengono le luci. Nessuno si ricorda più di
te". Astutillo scava nel passato e ricorda: "Avevo 19 anni ed ero titolare
del Brescia in serie B quando, grazie ad un amico, visitai per la prima
volta un centro per disabili. Mi impressionò la loro emarginazione,
l'abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un'emozione fortissima, un
pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale,
mi avevano già "insegnato" il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma
quel giorno tutto mi apparve chiaro. La vita non è solo una palla di cuoio.
Mi sono messo a studiare e mi sono specializzato nei problemi motori dei
bambini. Poi col primo ingaggio ho aperto una palestra ERA 77 (dalle
iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, mia moglie Raffaella e
del mio). Lì offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a
camminare, a muoversi da soli". Il tentativo di coinvolgere i compagni di
squadra, tranne rare eccezioni, non ha mai avuto successo: "I miliardari del
pallone dicono sempre di non avere tempo, di essere stressati. Per anni io
ho fatto la spola tra il campo d'allenamento e la palestra a Piacenza:
nessuno stress, solo la sensazione di essere un uomo migliore. Con i bambini
ottenevo la vittoria più importante, la parata da ricordare". Passi per
l'indifferenza. Ma c'era chi del suo impegno nel sociale gliene faceva
addirittura una colpa: "In tutta la carriera non ho mai saltato un
allenamento. Ero uno di quelli che si definiscono "professionisti
esemplari". Eppure, spesso, non bastava. Il bravo calciatore deve pensare
solo ed esclusivamente al calcio. Qualsiasi altro interesse è visto come una
pericolosa distrazione, anche quando aiuti dei ragazzi handicappati. Hai
sempre gli occhi di tutti puntati addosso: compagni, dirigenti, tifosi. Devi
rendere al 110% per non sentire le chiacchiere odiose e disumane degli
sciocchi". E ad ogni umano errore l'ignobile commento: "Quello pensa agli
handicappati invece che a parare.Ho visto Juve-Chievo - continua
Malgioglio - e la papera di Buffon sul primo gol: può capitare di perdere la
palla in un'uscita. Ma fosse capitato a me mi avrebbero massacrato". In
carriera Malgioglio ha cambiato diverse maglie. Dovunque è andato ha
continuato ad aiutare chi aveva bisogno: "Nel 1983 sono arrivato alla Roma.
Dei due anni in giallorosso conservo ricordi splendidi. Ho avuto ottimi
rapporti con tutti. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i
bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della
squadra dopo l'allenamento". Tra i compagni dell'epoca il ricordo più forte
va a un indimenticabile campione che dal calcio è stato tradito fino alle
estreme conseguenze: "Di Bartolomei, il nostro capitano, aveva una
sensibilità particolare. Come me parlava poco, ma aveva un cuore grande.
Andavamo spesso negli ospedali a trovare i bambini che erano in terapia
intensiva". Ma Roma porta alla mente non solo i successi sportivi, la finale
di Coppa dei campioni e la possibilità di continuare ad impegnarsi nel
sociale. Il tono di Astutillo si fa più basso e malinconico: "Dopo due anni
in giallorosso passai alla Lazio, in serie B. Fu una stagione tormentata in
cui vissi l'episodio più triste della mia carriera. La squadra stentava, la
società era assente e disorganizzata, i tifosi non mi lasciavano in pace.
Criticavano il mio impegno fuori dal campo, insultavano la mia famiglia. Mi
sono sempre chiesto il perché di tanto odio; non ho mai preteso applausi,
solo un po' di rispetto. In casa col Vicenza perdemmo 4 a 3 e il pubblico si
scatenò. Fischi continui a ogni mio intervento, fino a quando comparve uno
striscione in curva: "Tornatene dai tuoi mostri". Alla fine della partita mi
sfilai la maglia, la calpestai, ci sputai sopra e la tirai ai tifosi. Sono
un uomo anch'io. La società chiese la mia radiazione. Dello striscione
invece non parlò nessuno". Chi non avrebbe fatto la stessa cosa? Eppure
Malgioglio ci tiene a precisare. "Quello che mi ferì di più, non furono le
cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di
solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c'entravano
niente. "Mostri", così li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto
i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa
dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci
sono più". Aveva deciso di smettere quando arrivò la telefonata di
Trapattoni: "Non è giusto che uno come te lasci il calcio" mi disse. Firmai
in bianco e restai all'Inter cinque anni, vincendo l'ultimo scudetto
nerazzurro. Con gli ingaggi rinnovai la palestra con attrezzature
all'avanguardia.Venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio
centro". Il destino volle che molti anni dopo, il 4 marzo del 1990 giorno di
Lazio-Inter, Zenga, il titolare, fosse squalificato: "Giocavamo al Flaminio,
perché l'Olimpico era in ristrutturazione in vista dei Mondiali. Trapattoni
non ebbe alcun dubbio: vai in campo - mi disse - non sentire i fischi che
arriveranno, dimostra che uomo e che portiere sei. Il clima era teso, il
presidente Pellegrini mi chiese di portare dei fiori alla curva laziale per
non far scatenare i tifosi, c'era il rischio di incidenti. Io gli risposi
che non sarebbe servito a niente, ma a malincuore portai quei fiori".
Risultato? "La partita iniziò con 15 minuti di ritardo per lancio di oggetti
contro la mia porta. Mi dissero di tutto. Perdemmo 2 a 1 ma fui il migliore
in campo. Fummo bloccati negli spogliatoi per parecchio tempo. I tifosi
volevano assalirmi". Sembra assurdo ma una parte di imbecilli invece di
chiedere scusa a Malgioglio, ancora lo insulta: "Sono tornato a Roma a fine
carriera. Una volta per parlare ad un convegno sui problemi dei disabili,
all'uscita, per strada mi hanno riconosciuto e insultato". A 34 anni
Astutillo ha chiuso la carriera nell'Atalanta a causa di una serie di
gravissimi problemi fisici che ancora lo tormentano. Da un anno purtroppo il
suo centro di rieducazione è chiuso: "La salute e la mancanza di fondi mi
hanno costretto a chiudere la palestra. Io ho di che vivere, non chiedo
niente a nessuno. Ma la struttura costa molto e non me la sento di far
pagare i pazienti. Ora faccio quel che posso seguendo i casi più gravi a
domicilio. Ho ancora tanti macchinari, alcuni fatti fare su misura. Non so a
chi darli, un centro come ERA 77 rappresentava un unicum in Italia. E' un
peccato sia finita così". Dal mondo del calcio, neanche a dirlo, nessun
aiuto, nessun interesse: "Finchè fai parte di quel mondo, riesci ancora a
coinvolgere qualcuno, ad attirare l'interesse. Una volta finito di giocare
però nessuno si ricorda più di te. Non mi è mai piaciuto bussare alla porta
della gente, ho cercato di sensibilizzare tante persone. Ma ognuno deve fare
ciò che si sente". C'è un compagno che Malgioglio non dimentica: "Klinsmann
mi è sempre stato vicino. Ha seguito la mia attività per anni, aiutandomi
molto". Non ne fa un dramma, ma si sente che gli dispiace essere stato
dimenticato da tutte le sue ex società: "Eppure in un recente sondaggio sono
stato eletto miglior portiere della storia del Brescia e c'ero anch'io
nell'Inter che ha vinto l'ultimo scudetto. Ma non ho mai ricevuto un invito,
neanche per vedere una partita. Pazienza, così va la vita". Se fosse
arrivata una proposta sarebbe rimasto nel mondo del calcio? "Mi sarebbe
piaciuto lavorare con le giovanili. Ma uno come me è "pericoloso": mi
batterei contro la tratta dei baby calciatori che arrivano dall'estero,
bambini che vengono strappati dal loro ambiente. Dove finiscono tutti quelli
che non sfondano nel calcio? Se potessi, ad un ragazzo cercherei di far
capire l'importanza dello studio, del rispetto verso gli altri, e gli direi
che il gol più bello è aiutare chi ha bisogno. Perchè il calcio è un gioco,
ma la vita è un'altra cosa". Già la vita, quella che Malgioglio e sua
moglie, premiati dall'Unesco, continuano a spendere aiutando gli altri: "Mi
ha chiamato un'organizzazione cattolica, i frati trappisti di Lodi, per la
creazione di un centro per bambini abbandonati. Voglio aiutarli, le mie
macchine potrebbero ricominciare a lavorare". Chiudiamo con un'ultima
considerazione: oggi spesso la solidarietà nel mondo del pallone è solo di
facciata. Malgioglio sospira: "Un'amichevole a Natale, un sorriso alle
telecamere, una frase di circostanza e tutti a casa. Quanti dedicano davvero
qualche ora a chi soffre? So di Tommasi e pochi altri. Mosche bianche in un
mondo di ricchi, fortunati e.ciechi. Immagino le loro difficoltà. E quando
finiranno di giocare, saranno dimenticati. Perchè il calcio non ti perdona
niente, neanche la solidarietà".

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