di
MASSIMO IZZI incontro
con Jolanda Ferraris (sorella dell’indimenticabile Attilio, primo capitano
della Roma), favorito dai buoni uffici dell’impagabile Fratel Ambrogio,
rigoroso custode della memoria storica della Fortitudo, si è consumato
il 19 giugno, nel cuore del rione Borgo. Le emozioni sono iniziate già
davanti al
citofono dell’austero palazzo che in uno dei bottoncini esterni recita
con semplicità il cognome “Ferraris”. Scortato da Fratel Ambrogio
e da Gabriele
Pescatore, mi sono ritrovato in pochi secondi a tu per tu con Jolanda,
splendida signora che ha regalato ai presenti e a tutti i lettori del Romanista
un inedito e straordinario ricordo del “bravo nazionale e capitano” di
Campo Testaccio. Signora Jolanda,ci parli della sua famiglia. So che era
molto numerosa. «Sì, eravamo otto fratelli e ci volevamo
veramente bene. Mai uno screzio, né un’incomprensione: eravamo veramente
uniti. Oltre a me
e ad Attilio c’erano Fausto, Gino, Paolino, Eleonora, Lucia e Maria. Poi
c’era Eurosia, nostra madre, e papà Secondo, che nonostante il nome
era stato il primogenito della sua famiglia. Nostro padre aveva un negozio
dove riparava le bambole. Era di origine piemontese, tanto che la Juventus,
quando ancora Attilio era minorenne, inviò due suoi incaricati,
chiedendo a papà di favorire il suo passaggio in bianconero. Lui
rispose che non avrebbe venduto suo figlio. Sapeva che suo figlio voleva
rimanere a Roma e giocare nella Roma». Attilio quando ha iniziato
a giocare a calcio? «Devo fare una premessa. Lui era conosciuto sui
campi da calcio come Ferraris IV, perché anche gli altri fratelli
maschi, che erano più grandi di lui, giocavano. Soprattutto Paolino
era bravissimo, quanto Attilio. Gino, invece, giochicchiava, perché
aveva avuto un infortunio a una gamba. Fatto sta che Attilio era cresciuto
in una famiglia dove il football era di casa. Ricordo quando mamma mi mandava
a cercarlo: “Vai alla Fortitudo, vedi se è lì”. Io andavo,
vedevo, e poi riferivo: “Sì, è alla Fortitudo, con Fausto”.
E mamma puntualmente diceva: “Allora sto tranquilla”». E in Fortitudo
Attilio trovò la guida di Fratel Porfirio. «Fratel
Porfirio era sempre con i ragazzi, li seguiva, si interessava dei loro
problemi. Ma con lui c’era anche fratel Perosi, che quando Attilio era
molto piccolo,
lo fece cantare nel coro. Poi, crescendo, mio fratello cambiò voce.
Ricordo anche, con affetto, fratel Erminio, che quando mi vedeva mi prendeva
sempre in giro e sorridendo mi diceva: “Tuo fratello non è buono”.
Io, che ero piccola, andavo da mamma e gli dicevo: “Perché fratel
Erminio dice
che Attilio non è bravo a giocare a pallone?”. E mamma rideva… La
Fortitudo era una famiglia, con i fratelli Sansoni, gli Alessandroni». Uno
degli amici più grandi di Attilio era Bramante, vero? «Ah,
Bramante era un grande amico di Attilio: facevano tardi insieme e tante
volte lo portava a dormire a casa. Allora noi ragazze chiudevamo le porte,
perché ci vergognavamo. Erano altri tempi». Che carattere
aveva Attilio? «Era gioviale e aveva un grande amore per la sua famiglia.
Adorava i bambini. Quando seppe che aspettavo, scherzando, mi disse: “Jolanda,
questo ce lo dai a me e a mia moglie, eh?”. I ragazzini lo intenerivano.
Non hai idea di quante volte, tornando dalle trasferte della Nazionale,
veniva sommerso da questi piccoletti che gli chiedevano una foto, un autografo.
Lui apriva la valigetta e gli dava regolarmente la maglia azzurra. Era
di una enorme generosità. Di nascosto ortava tante persone a casa
che si lamentavano di non avere un vestito e regalava a tutte uno dei suoi
completi. Era fatto così». E del Ferraris giocatore cosa mi
dici? «Ricordo sempre una partita Alba-Fortitudo. Perdevamo e la
fidanzata del portiere avversario aveva ricevuto un cestino di fiori con
dei garofani bianchi e le foglie verdi (i colori dell’Alba, ndr). I fiori
erano 17 e lei ne buttò uno in campo, per scaramanzia. Come toccò
il terreno la Fortitudo segnò. Successe
un quarantotto. Attilio era amatissimo dalla gente. Una volta, quando già
giocava nella Roma, si fece male. Arrivò talmente tanta gente che il
portiere dello stabile mise un cartello dove era scritto il piano in cui
si trovava Ferraris IV, e un tifoso, all’ingresso, dovette essere incaricato
di regolare il
traffico dei visitatori in entrata e in uscita». Come spese Attilio
i suoi primi guadagni? «Comprò la macchina (Jolanda sorride,
ndr). Ma non bisogna pensare ai soldi che hanno oggi i calciatori, non
c’è paragone. E comunque, come ho già detto, era molto generoso.
Quando tornava dalle trasferte internazionali e dai viaggi portava sempre
dei regalini per noi sorelle e per i nipotini». È vero che
per un periodo lavorò in banca? «No, non mi risulta. Un altro
dei miei fratelli lavorava in banca, forse chi lo ha detto si è
confuso per questo motivo. Ma Attilio aveva una bella mente. Quando faceva
le medie, la professoressa di matematica dettò un problema ideato
da lei. Nessuno lo risolveva, perché c’era un dato sbagliato. Lui
si alzò e lo disse all’insegnante, che non la prese bene e gli disse:
“Come si permette lei? Vada al posto e si ritenga bocciato”. Attilio, che
era molto impulsivo, si arrabbiò molto: “Lei non boccia proprio
nessuno, perché io ho ragione”. Volò il calamaio, volò
tutto e uscì infuriato. Lo cercarono i compagni di scuola, gli amici
della Fortitudo. Quindi, non ricordo se a Giovanni Agostini o a Bramante,
venne in mente di provare a Villa Borghse. Lo trovarono che dormiva sotto
un albero». Qual
era la giornata tipo di Attilio quando doveva giocare? «Mangiava
a casa, ed era brodo per tutti quanti, anche per noi che lo andavamo a
vedere». Le
magliette della Fortitudo,e poi della Roma,le lavavate a casa? «Questo
francamente non lo ricordo. Posso però dire che ai tempi della Fortitudo
non avevano gli spogliatoi (l’impianto era quello del Campo Aurelio alla
Madonna del Riposo, ndr). C’erano dei catini grandi all’aperto, con dei
tubi pendenti da cui veniva giù l’acqua, e i giocatori si lavavano
lì. Quando iniziavano, noi bambini, che giocavamo su quel prato,
venivamo mandati via. Un’altra immagine che ricordo è quella di
Attilio che camminava verso il campo con le scarpette da calcio a tracollo
e papà, che lo accompagnava, aveva la coda dei
ragazzini dietro: “Mi fai entrare?”. E lui se li portava tutti dietro».
Nel periodo in cui giocava nella Roma,Giorgio Carpi,suo compagno di squadra,gli
consigliò di aprire un bar che divenne un punto di ritrovo per i
tifosi romanisti.Nel locale,Attilio aveva fatto appendere una lavagna su
cui era scritto “Attilio Telegrafa”, che veniva riempita con le ultime
notizie sulla Roma e sulla Nazionale che comunicava via telefono dalle
trasferte.Lo ricorda? «Era
a Via Cola di Rienzo, al bar lavorava anche Fausto e alla cassa qualche
volta, quando Fausto stava male, ci sono stata anche io. Oggi c’è
un negozio di
scarpe». Come ricorda la conquista del mondiale del 1934? «Con
grande gioia, a casa ci fu una grande festa, lo abbiamo accolto trionfalmente,
una soddisfazione grandissima». Sempre nel 1934 ci fu il passaggio
alla Lazio? «Eeeh (Jolanda fa un lungo sospiro, ndr). Il passaggio
alla Lazio, pure per noi… La ricordo bene quella partita (Roma-Lazio 1-1
del 18 novembre 1934, ndr): io stavo seduta e non mi alzavo. Ero della
Roma, non mi andava di battere le mani per la Lazio, ma dall’altra parte
c’era Attilio e non potevo fare il tifo contro di lui. È stata una
sofferenza, ma alla Lazio è rimasto poco, e nel suo cuore, questo
glielo posso assicurare, la Roma… Per carità, gli è rimasta
nel cuore sino alla fine. Era la “sua” squadra. Come del resto, rimase
legato alla Fortitudo.
Ricordo che una volta, aveva già smesso di giocare, comprò
le maglie a tutti i ragazzini delle giovanili della Fortitudo». L’8
maggio 1947, improvvisa, la sua scomparsa, su un campo di calcio. «La
nostra famiglia era distrutta. Attilio aveva continuato a tenersi in forma,
giocava a tennis, nessuno poteva aspettarsi una tragedia del genere. Forse
era destino… Non ha idea di quanta gente venne per i funerali, era rimasto
nel cuore di tante persone». Prima di concludere l’intervista le
chiedo un ultimo ricordo, che ci permetta di salutarci con il sorriso sulle
labbra. «Una
volta fece una scommessa. Abitavamo al sesto piano, in via Properzio. Non
c’era ancora l’impianto dell’ascensore. Si mise in testa che avrebbe fatto
di corsa tutte le rampe delle scale e si sarebbe affacciato, non ricordo
più in quanti secondi. Quella scommessa la vinse e lo vedemmo sbucare trionfante
dalla finestra». (pubblicato
su Il Romanista" dell'11 novembre 2007)