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Roberto
Qui non si parla di musica pop rock punk, o di stili spettacolari, o di pura, deliziosa perché inutile, violenza. Qui si parla di un tarlo che non riesce a farti accontentare del pub distrutto, della curva conquistata, dell’adrenalina che ti pompa un’elettricità che non c’è droga al mondo... Dentro di noi c’è un grumo di rabbia antica, mai sopita, che ci spinge oltre il limitato orizzonte della battaglia, e ci conduce ineludibilmente alla guerra di classe. Se abbiamo conquistato il continente, se da Lisbona a Mosca, da Copenhagen ad Atene si scorge in ogni curva il segno della nostra influenza, non è per qualsivoglia feroce imbattibilità, ma perché vi abbiamo portato un modello di conflitto applicabile nei più disparati contesti socio-geografici. Noi siamo stati gli untori di un germe che ha attecchito e proliferato, fino ad assurgere ai supremi ranghi di epidemia continentale e di allarme internazionale. Noi siamo stati il peggior dito al culo che potesse capitare al sistema del calcio, ed alle sue milizie armate. Come in Andy Capp, una serie di omini vestiti di nero, col casco a cupola, si incuneavano poi nelle mischie, dividendo e allontanando le due fazioni. Le grandi stazioni di snodo, ferroviarie e metro, accantonavano la propria essenza di non-luoghi assumendo temporaneamente identità di sapore tribale, ridisegnandosi e ricomponendosi lungo direttrici non più di spostamento fisico bensì di scontro fisico, e quindi di narrazione epica, di sterili sigle trasmutate in leggenda, di scale mobili e corridoi che divenivano luogo, compiutamente luogo, di tragiche o eroiche o esilaranti vicende. Detto ciò, non c’è molto altro: grandi risse, una mitopoietica vastissima che la Boogaloo publishing sta progressivamente proponendo in italiano, il fascino ingleseggiante del nome e del luogo. Ma nel giro di quindici anni gli hanno rovesciato sotto gli occhi il soccer come un pedalino e loro niente, manco un batter di ciglia, una reazione, un ruggito. Hanno iniziato a darsi le punte con i cellulari, sempre più distanti dagli stadi, definitivamente allontanati dal proscenio, di nuovo a picchiarsi nei quattro vicoli bui che collegano Bengal e Nepal street. Noi siamo nati proprio dall’idea che il gioco del calcio, e con esso l’intera nostra esistenza, stesse prendendo una brutta piega, sempre più affari e sempre meno passione. E che non avevamo nessuna intenzione di star là a guardare, idealmente a bocca spalancata, mentre ci inculavano la vita sotto ogni aspetto. Così ci siamo tenuti ben stretta l’idea inglese del campionato parallelo, non abbiamo mai rinunciato alla baldoria e alla violenza, ma abbiamo irrorato la felicità del nostro teppismo con cisterne di rabbia sociale. Il nostro reciproco cercarci e trovarci in giro per gli stadi d’Italia è esploso in una pratica più complessa, e pericolosa, che il semplice confrontarsi con gli avversari di turno. Più complessa perché implica il ruolo di unica forma di resistenza alle trasformazioni affaristico- commerciali del sistema-calcio, più pericoloso perché eleva a proprio primo e peggior nemico non più l’avversario ma appunto il sistema stesso. Insomma, tra noi e loro – i cuginetti inglesi – c’è la stessa differenza che passa tra il tirare un mattone contro la finestra di un nemico oppure contro la vetrata del commissariato. Da noi, e di seguito un po’ovunque, la scelta della vetrata è stata considerata di certo divertente, ma anche e soprattutto obbligata per quanto ci avveniva attorno, per come venivamo trattati, per il sordo rifiuto ad ogni istanza di democrazia nel calcio e nell’intera società. Nel nostro piccolo, abbiamo scelto di combattere. E abbiamo continuato a farlo per decenni, mentre tutto intorno a noi le istanze più radicali, gli sfondamenti ai concerti, gli espropri, le occupazioni, i movimenti conflittuali andavano sparendo, oppure illanguidendosi. Noi siamo rimasti lì, sulla barricata, esempio di irriducibilità per i giovani di tutta Europa. Ma i più importanti segni, noi, non li abbiamo lasciato tanto sulle persone quanto sulle curve nel loro insieme, tanto da aver piegato addirittura lo stereotipo della passione calcistica al nostro gusto. Le grandi coreografie che tanto piacciono anche al sistema-calcio, tutto quel che di noi vorrebbero mantenere e strumentalizzare, rappresenta soltanto la punta di un iceberg ben più minaccioso. Dietro lo striscione immenso, la sbandierata, gli effetti coreografici affidati a palloncini, fogli bristol e tessuti colorati, dietro i tamburi ed i megafoni c’è una forma di auto-organizzazione complessa, che insegna a collaborare, a lavorare uniti e duramente, a sopportare sacrifici e repressione per uno scopo comune, per un qualcosa che è andato progressivamente assumendo in tutta Europa la funzione di principale agenzia di conflitto divertito. Abbiamo quadrato il cerchio, noi: disturbare il potere nel suo principale salotto mediatico e, al tempo stesso, continuare a divertirci, a ubriacarci e farci le canne, ad acchitare e dare e ricevere botte, ad essere sempre ed irrimediabilmente una folla di Franti. È per tutto ciò che l’Europa è oggi nostra, ed anche dove le scorribande più furibonde appaiono domate ancora cova e serpeggia e resiste il solito, vecchio tarlo che, esportato, continua per fortuna a non tenere tranquilli i ragazzi. La guerra al calcio moderno non si fermerà. Non temiamo mode e repressioni, noi. Siamo ultrà, e ce la comandiamo. |