I ricordi di Franco
Tancredi: «Un derby
è per sempre»
di Mimmo Ferretti
ROMA - Franco Tancredi, classe 1955, 382 presenze tra i pali
della Roma dall’estate del 1977 a quella del 1990, uno
scudetto e quattro coppe Italia in bacheca, oggi è il
preparatore dei portieri della squadra giallorossa,
«Stekelenburg? Vale due Tancredi, e non soltanto sotto
l’aspetto fisico. Il paragone con il sottoscritto mi lusinga,
ma Stek ha una dimensione internazionale che io non ho mai
avuto», precisa con estrema sincerità.
Oggi, però, il ruolo del portiere è molto
diverso rispetto ai suoi tempi...
«Sono cambiate le regole e le tattiche, quindi
c’è molta differenza. Ma quando io avevo davanti Turone
e Santarini, il doppio libero inventato da Liedholm, e la Roma
giocava in maniera rivoluzionaria a zona, io già dovevo
fare cose che adesso sono normali, come giocare al limite
dell’area o anche oltre usando spesso i piedi».
Lei è stato protagonista di nove derby, otto di
campionato e uno di Coppa Italia. Con un bilancio lusinghiero:
cinque reti al passivo e una sola sconfitta. Se la ricorda?
«Certo, purtroppo... È legata a quel gol che Di
Canio fece sotto la Sud (Lazio-Roma 1-0, 15 gennaio 1989). Fu
una partita molto brutta, con pochissime occasioni da entrambe
le parti e risolta da quella rete di Di Canio che poi
andò a festeggiare in faccia ai nostri tifosi. Un gesto
che noi ci legammo al dito, tanto è vero che alla prima
occasione festeggiammo la vittoria contro la Lazio in
maniera... esagerata».
E quando accadde tutto questo?
«In occasione del mio ultimo derby, pensate. Si giocava
al Flaminio in un’atmosfera molto anglosassone, stadio
piccolo, niente pista, tifosi quasi attaccati ai giocatori.
Vincemmo con un gol di Voeller (Lazio-Roma 0-1, 18 marzo
1990), dopo aver pareggiato i due derby precedenti, e al
fischio finale facemmo festa con i nostri tifosi quasi fino a
notte».
E il suo primo derby?
«Quello legato alla morte di Paparelli (Roma-Lazio 1-1,
29 ottobre 1979). Una tragedia infinita che noi calciatori
vivemmo in campo minuto dopo minuto con angoscia infinita.
Quella partita non si doveva giocare poi invece si decise,
credo per motivi di ordine pubblico, di cominciarla ma noi
calciatori sapevamo tutto quello che era accaduto e quindi fu
una gara assolutamente particolare. Fu molto bravo l’arbitro
D’Elia a portarla fino al novantesimo con grande buon
senso».
Ci racconta, allora, il suo primo pre derby?«Liedholm mi
comunicò che avrei giocato due giorni prima della
partita, e la cosa mi procurò gioia e emozione. Non ero
ancora il titolare della Roma, c’era Paolo Conti davanti, e
quella promozione fu un segnale importante. In quei giorni, io
non romano capii, e per sempre, che cosa era e che cosa
è il derby a Roma. Chi dice che è una partita
come tutte le altre, sbaglia di grosso».
E che cosa ha di speciale
«L’attesa, innanzi tutto. A Roma si comincia a pensare
alla sfida con la Lazio un mese prima e poi se ne parla per
tutta la vita. Ago, il mio capitano, essendo romano e
romanista mi aveva spiegato un po’ di cose, mi aveva istruito
per bene ma poi la realtà si rivelò molto
diversa, straordinariamente più emozionante, della
teoria. Stavo da due anni a Roma, ma non avevo ancora capito
niente o quasi della città. Dopo quel primo derby, mi
sono sentito (e mi sento) romano al cento per cento...».
Il suo derby più bello?
«Quello con il rigore parato a Bruno Giordano sotto la
curva Nord (Lazio-Roma 0-2, 23 ottobre 1983), con l’immenso
striscione TI AMO in curva Sud e lo scudetto sulle nostre
maglie...». «Sì, sapevo che Bruno di solito
calciava fortissimo e un po’ centrale: ho pensato che avrebbe
tirato alla mia destra, sono andato da quella parte e ho
respinto la palla».
L’attaccante della Lazio che temeva maggiormente?
«Giordano. Un fenomeno, uno che con i piedi poteva fare
ciò che voleva. E vi confesso una cosa: il Giordano dei
nostri tempi si chiama Rooney. Conosco bene Wayne, fidatevi di
me».
Il derby più divertente?
«Uno che non giocai...».
Prego?
«Vincemmo in casa loro (Lazio-Roma 1-2, 2 marzo 1980)
con un gol di Giovannelli a cinque minuti dalla fine e io ero
in panchina».
Divertente...
«Adesso spiego. Prima dell’inizio della partita, io
andai ad abbracciare D’Amico, ragazzo simpaticissimo e mio
compagno in tutte le nazionali giovanili. Vista la scena, mi
si avvicinò Liedholm e mi fece una cazziata: Franco,
hai trasferito tutta la tua positività a D’Amico... Io
lo guardai un po’ storto e la cosa finì lì. Solo
che...».
Solo che?
«Solo che, dopo la rete di Pruzzo, proprio D’Amico
segnò il gol del pareggio. Il Barone mi fulminò
con lo sguardo: Franco, cosa ti avevo detto... Per fortuna,
però, Giovannelli fece il secondo gol e io andai ad
abbracciare Paolo fin quasi sotto la Sud. Sennò
Liedholm chi lo sentiva...»