INTERVISTA
A VALERIO MASTANDREA
APRILE 2016
*
"Conti, Chinellato, Maggiora, Boni, Peccenini,
Santarini, Di
Nadai, Di
Bartolomei,
Pruzzo, De
Sisti,
Scarnecchia.
Allenatore,
Ferruccio
Valcareggi.
Arbitro
Michelotti.
«Roma-Atalanta,
sei maggio del
1979, la prima
partita che
vidi allo
stadio» dice
Valerio
Mastandrea,
che è
dell’inverno
1972 e con la
squadra
fondata nello
stesso
quartiere in
cui abita si è
accompagnato-mese
più mese meno,
molti dolori,
qualche
sparuta gioia-
per
trentasette
anni. Dopo la
sconfitta con
la Lazio nel
derby di Coppa
Italia del
2013- quella
che nel
sintetico
Lulic 71,
riempì di
graffiti
celesti i muri
di mezza città
omaggiando in
cinque sole
lettere e due
numeri,
giustiziere
dei nemici e
momento chiave
della gara-
Mastandrea
tornò a casa,
accese il
computer e
scrisse
“Peggio”. Una
sintesi del
destino di chi
soffre.
Relativizzazione,
ironia e
idealismo,
quasi un
autoscatto:
«Vincere per
un romanista è
ottenere
giustizia. La
vittoria nel
suo mondo è
illegale
perché la
legge vuole
che perda
sempre e
sempre quando
non dovrebbe».
Seguono notti
di coppe e di
campioni,
rimpianti,
esempi, paure,
gioie,
consapevolezze.
Incipit:
«All’inizio
del credo e
alla fine
della decenza.
Peggio di così
non poteva
andare. Non è
vero. Perché
il concetto di
peggio per un
romanista non
esiste, non è
confinato in
una logica
precisa».
Più in là dei
60 film, dei
premi e dei
copioni
studiati per
Scola, Virzì,
Moretti, Abel
Ferrara e
Giordana,
Mastandrea ha
visto anche un
altro cinema.
Per le strade
di Testaccio,
con una cassa
d’acqua nella
sinistra e le
chiavi di casa
nell’altra
mano, lo
salutano con
familiarità.
Lui parla con
gli
sconosciuti in
libera uscita,
accarezza i
cani al
guinzaglio e
non dimentica
di quando
abbaiando alla
luna tra i
gradoni di
un’arena a
briglia
sciolta,
l’intera
settimana
altro non era
che un conto
alla rovescia
dai tre fischi
finali della
domenica a
quello
iniziale della
domenica
successiva.
Da
bambino
giocava a
calcio?
Forse
avrei voluto,
ma le
iscrizioni,
quando mia
madre mi
accompagnò
nell’ottobre
1978 in
oratorio,
erano state
già chiuse.
«Signora ci
dispiace-dissero
i preti a
questa signora
di ventisei
anni che
teneva per
mano il figlio
di sei- il
gruppo del
calcio è stato
completato a
settembre».
«Cos’è
rimasto?»
domandò. «La
pallacanestro.
L’allenamento
è iniziato da
dieci minuti,
se suo figlio
vuole può
iniziare
subito».
E lei iniziò.
«Vuoi giocare
a
pallacanestro?»,
«Che sport
è?», «Un
calcio con le
mani». Mamma
mi strappò un
rapido
assenso, si
tolse la
maglietta, me
la mise e mi
mandò sul
parquet. Il
basket è stato
la mia vita
fino al 1988.
Poi?
Smisi. Mi
disamorai.
Avevo avuto
uno sviluppo
lento. A
quindici anni
marcavo gente
con la barba.
Il basket è
uno sport
molto fisico e
mi facevo
sempre male.
Con i miei
compagni di
allora ogni
tanto
giochiamo
ancora.
Niente calcio
quindi.
Dopo aver
mollato il
basket che
come tutti i
veri ex non
seguo più, ho
giocato in
porta per tre
o quattro
anni. Non ero
capace e non
ero neanche
coraggioso. Mi
piaceva stare
tra i pali, ma
nelle uscite
ero una pippa.
I miei danni
li ho fatti.
Ho anche
spaccato una
gamba al mio
difensore. Ci
penso spesso,
poveraccio.
Dinamica?
Lui e
l’attaccante,
un bel toro,
avanzano
gomito a
gomito verso
la porta. Io,
gliel’ho
detto, non
uscivo mai.
Quella volta
esco. La palla
è bassa e io
prendo tutto.
Il mio
difensore era
molto
simpatico,
scherzava
sempre. Così
quando lo
sento urlare
gli dico di
rialzarsi
sorridendo. Ma
quello non si
rialza. Allora
mi avvicino,
gli abbasso il
calzino e vedo
l’osso fuori
asse.
Lo sport è
anche questo:
brutalità,
immediatezza e
colpi duri?
Stare in uno
spogliatoio,
in qualsiasi
spogliatoio,
significa
condividere
con i tuoi
compagni
tantissime
cose. Lo sport
è una forma di
socialità
importantissima.
Lo è anche la
curva?
Allo stadio,
da piccolo,
andavo con un
amico di mio
nonno. Poi,
più
grandicello
con quelli del
bar, un po’
più adulti di
me. Quando
iniziai a
farlo da solo
cominciai a
capire anche
altro.
Che cosa?
Andare in
curva a 18
anni, vivere
in
quell’ambiente
e passare
tanto tempo in
quel contesto,
ti fa sentire
l’identità
della tua
squadra nel
cuore in
un’altra
maniera. E poi
lo stadio, la
curva, è
aggregazione
vera.
Può
spiegarcelo?
Sei giovane.
Vedi con i
tuoi occhi un
mondo nuovo e
una comunità
che ha le
proprie
regole. Sei
sedotto da
tante
situazioni al
limite. Impari
a distinguere
i confini. A
fermarti in
tempo. Cresci
e intanto,
riconosci i
tuoi simili.
Chi erano i
suoi simili in
curva?
Gente con cui
viaggiavo per
vedere un
Brescia-Roma
serale, di
lunedì, in
trasferta.
Gente che ha
conosciuto il
mondo
attraverso la
Roma e in
funzione della
Roma. Gente
che sa come
muoversi a
Bruges e a
Mosca. Dove
mangiare e
dove bere il
caffè buono.
La chiamano
sottocultura.
Non so, a me
sembra cultura
vera e
propria.
Lei non ama
parlare della
Roma.
Lo faccio solo
con i miei
simili. Parlo
pochissimo del
mio rapporto
con la Roma
proprio perché
lo definisco
un rapporto. E
non si
racconta in
giro di come
fai l’amore
con la tua
donna. Finiti
i tempi delle
descrizioni
sofferte dei
flirt
adolescenziali,
su certe cose,
non c’è niente
di meglio del
silenzio.
L’hanno
cercata per
chiederle di
schierarsi tra
Totti e
Spalletti?
L’hanno fatto,
certo. E io
gli ho detto
di non
azzardarsi. Io
nasco come
romanista a
prescindere
dal mestiere
che faccio e
dalla persona
che sono. Non
l’ho scelto. È
stato
automatico.
Tra il
campione quasi
quarantenne e
l’allenatore
di ritorno,
Roma si è
divisa.
Sono stati
giorni
sofferti. È
come se
avessimo avuto
un grave
problema di
famiglia. Non
è che uno non
prenda
posizione per
ignavia, ma
solo perché è
troppo
complicato.
Giorni
sofferti.
La sofferenza
è un’altra
cosa, però ci
incontravamo
al bar tra
persone
romaniste con
certe facce
che erano un
programma: «Ma
tu stai
male?»,
«Benissimo non
mi sento». È
stato come se
le chiacchiere
di casa tua,
quello che ne
so, fatte a
Natale tra un
sette e mezzo
e una stoppa,
fossero rese
pubbliche. Lo
so che sembra
ridicolo, ma
la Roma è
qualcosa che
va oltre
l’amore, gli
anni e la
passione. È
facile dire
moriremo
romanisti. Il
difficile è
vivere come
tali.
Il calcio le
piace ancora?
Allo stadio
non vado più.
Sono abbonato,
ma non riesco
più ad andare
in un posto in
cui le due
curve non sono
piene e non
cantano. Non
c’è più
l’approccio
goliardico.
L’ironia e
l’autoironia
che faceva
impazzire gli
avversari e ci
portava a
passare sopra
alla
sconfitta. A
ridere e a far
casino anche
se perdevamo
per cinque a
zero. Il
romanista
sapeva
prendersi e
prenderti per
il culo come
nessuno. Oggi
il Barcellona
ti fa sei gol
ed è subito
psicodramma.
Si sfasciano
le famiglie. È
diventato
tutto più
nevrotico ed è
svanita quella
sensazione di
poter andare
oltre. Oltre
il risultato,
come si
diceva, ma non
solo.
Andare oltre
era
importante?
Era
fondamentale.
In curva ho
imparato a
ridere e ad
amare
nonostante
tutto. Se tifi
per una
squadra che ha
storicamente
perso scudetti
e coppe,
spesso in casa
e sempre
all’ultimo
istante,
ridere è
l’antidoto che
ti permette di
sopravvivere
alle
sofferenze
dell’amore.
Sono
sensazioni che
si stanno
perdendo?
Si stanno
perdendo
perché lo
stadio è
diventato un
luogo
inaccessibile.
Ci sono norme
assurde che
limitano
fortemente
quando non
impediscono
del tutto
l’accesso allo
stadio. Mi
stupisco che
ci si sia
dimenticati la
valenza
sociale di una
curva.
Curva e tifosi
vengono
raccontati
unidirezionalmente?
È strano, ma
quando si
tratta di
discutere di
tifo, anche da
parte dei
commentatori
più
illuminati,
c’è un
riflesso
pavloviano. E
si ascoltano
banalità,
analisi
superficiali,
accuse
scontate. Per
scrivere di
quel mondo
dovresti
conoscerlo. E
conoscere non
significa
giustificare
ogni eccesso,
ma evitare di
chiudere una
curva per un
coro magari
sì.
“La curva come
luogo
d’elezione
della
frustrazione”
hanno scritto.
E hanno
mentito. I
frustrati che
portano allo
stadio le
rabbie delle
proprie vite
esistono, ma
sono negli
altri settori
dello stadio.
In curva c’è
un’altra
dimensione.
Che il settore
popolare
continui a
essere il
settore più
sano non me lo
toglie dalla
testa nessuno.
Una curva
unita vale da
sola tutti gli
agi e i lussi
dei mille
Emirates
Stadium sparsi
per il mondo.
I tifosi
parlano di
repressione
indiscriminata.
Che nel 2016
non si
permetta ad
alcune
tifoserie di
venire allo
stadio di Roma
e viceversa mi
pare un
controsenso.
Sembra una
scelta poco
intelligente e
poco
lungimirante.
A meno che
l’interesse
non sia
mantenere la
tensione alta
senza alcun
reale
interesse nel
contrastare le
derive
violente che
pure esistono,
di cui chi
controlla
conosce ogni
dettaglio a
partire dai
nomi e dai
cognomi e di
cui certo non
sarò mai
alfiere. Se
dai una
coltellata a
un altro,
amico mio non
sei.
Si ricorda di
Gabriele
Sandri?
I morti da
stadio
italiani me li
ricordo tutti,
uno a uno. La
lezione che
suo padre
Giorgio ha
dato a tutti,
a differenza
di quanto
fecero le
istituzioni, è
stata
grandissima.
Ci penso
sempre a
quella
conferenza
stampa che fu
fatta in tarda
mattinata.
Parlarono di
una rissa da
stadio come
fosse un reato
che prevedesse
sparare.
Sarebbe
bastato dire
la verità: «Un
matto ha
sparato,
prenderemo
provvedimenti».
Perché poi uno
ci pensa:
«Faccio a
cazzotti e tu
che fai, mi
spari?
Dall’altro
lato di una
carreggiata,
in
autostrada?».
La repressione
in questi anni
ha alzato
molto il
livello dello
scontro. Ma
alcune curve
hanno
dimostrato di
sapersi
educare da
sole anche
attraversando
momenti di
contraddizione
pura. I
precetti
calati
dall’alto come
le ricette da
laboratorio
non
funzionano.
Lo stadio è
stato usato
come
laboratorio
per veicolare
la
repressione?
Senz’altro. Il
mondo del
pallone è
appetibile per
ogni forma di
potere.
L’ambiente che
rimpiango, a
tutto questo,
al potere in
senso stretto,
era estraneo.
Ha mai avuto
paura allo
stadio?
Certo. Ho
imparato ad
avere paura e
ad avere
coraggio.
Il calcio è
conflitto?
Il calcio è
battaglia nel
senso positivo
del termine. È
conflitto
perché a
duellare sono
due identità.
Chi tifa si
immedesima,
vibra, soffre
e sembra quasi
soffiare alle
spalle di chi
corre. Perché
la gente ama i
calciatori
scarsi che
però mettono
in gioco ogni
cosa? E perché
invece detesta
la personalità
di un
calciatore che
è l’unico
aspetto che un
atleta non può
allenare?
Puoi
migliorare
tecnicamente,
ma il tuo
carattere
rimane tale e
a essere
diverso da
come sei in
fondo non
impari mai.
Una volta
Franco Baldini
mi disse che
per capire che
calciatore hai
davanti agli
occhi, devi
guardare
quanto gli
altri si
fidino di lui
in campo. Non
è solo
questione di
tecnica. La
squadra è una
classe,
l’allenatore è
il professore,
gli alunni
vanno in campo
e devono
dimostrare di
avere cuore,
non solo di
aver appreso
la lezione.
Dalle maglie
in lanetta
degli anni 70
a oggi, il
calcio ha
compiuto il
suo giro ed è
diventato un
affare.
Il pallone
negli ultimi
trent’anni è
stato talmente
mercificato a
livello
ideologico e
non solo
commerciale
che è entrato
nell’immaginario
collettivo
ancor prima
che le persone
lo scoprissero
e lo
praticassero.
I bambini
italiani oggi
hanno accesso
al calcio in
una maniera
talmente
costante,
polemizzata ed
esasperata che
automaticamente,
in un processo
imitativo,
rifanno delle
cose invece di
scoprirle.
Colpa delle
tv?
Prenda il
cinema.
Perché, Fuga
per la
Vittoria a
parte e
soprattutto
per merito del
cast, non
esiste un buon
film sul
calcio che
sappia
coniugare
immagine e
drammaturgia?
Perché la tv
ha ucciso la
curiosità.
Perché devo
concentrarmi
sulla finzione
quando con Sky
posso leggere
persino il
labiale al
rallentatore e
capire cosa ha
detto il
giocatore in
campo?
Il calcio è
anche
letteratura.
Il libro di
Sandro Modeo
sul Barcellona
è filosofia.
Come erano
saggi
filosofici
anche i
pensieri di
Soriano e
Galeano. Si
ricorda il suo
affresco di
Maradona? «È
stato un
grande
calciatore di
calcio
nonostante la
cocaina».
Nonostante.
Amava altri
campioni che
non vestissero
la maglia
della Roma?
Il romanismo
l’ho
incamerato
molto presto,
a cinque o sei
anni. Ho avuto
un momento di
offuscamento
quando Zico
andò
all’Udinese.
Era un
campione ed
era brasiliano
come Falcao.
Non dico che
tifassi per
l’Udinese, ma
una sbandata
l’avevo presa.
Poi ci fece
gol e mi bastò
per capire da
che parte
stavo.
Altre
sbandate?
È come
chiedermi se
mi è mai
piaciuta una
donna diversa
dalla mia.
Figurine
romaniste?
A parte quelle
dell’infanzia,
penso al
bomber Pruzzo
e ad Agostino
(Di Bartolomei
ndr) e a
qualche
passione
improvvisa e
smodata per
certi eroi da
derby, vedi
Simplicio, ho
sempre
ricordato
meglio le
figurine che
mi hanno
interrotto un
sogno, magari
al
novantesimo.
Vavra dello
Slavia Praga
ad esempio
adesso si è
ritirato e
magari ha
aperto una
burgheria a
Praga, ma per
me resta un
nome
indimenticabile.
E comunque le
figurine che
ti restano
dentro più di
quelle dei
calciatori
sono quelle
dei tuoi
compagni di
stadio.
Alcuni
conosciuti,
altri
raccontati,
storie e
persone che
hanno sempre
fatto e dato
qualcosa in
più al senso
più grandi
dell’essere
tifosi di una
squadra di
calcio. I
calciatori
prima o poi
smettono di
giocare nella
Roma. Noi non
smettiamo mai
di essere
parte della
Roma. Non c’è
un contratto
che scade. A
parte quello
con la
“commare
secca”.
E le
sconfitte?
Ringrazio dio
di aver avuto
solo dodici
anni a
Roma-Liverpool
e non più di
quattordici
dopo
Roma-Lecce. Le
sconfitte si
ricordano
meglio delle
vittorie. A
volte gli zero
a zero
improvvisi non
li cancelli
più. Il
Liverpool ad
esempio mi ha
colpito in
tutte le fasi
della mia
vita.
Infanzia.
Adolescenza e
quasi
maturità.
(Coppa Uefa,
arbitro
Miranda).
Forse da
vecchio un
dispiacere
glielo darò
anche io.
Il lutto?
Bisogna
elaborarlo e
accettarlo
alla velocità
della luce.
Perché per un
romanista la
vittoria è
illegale e la
legge vuole
che perda
sempre e
sempre quando
non dovrebbe.
Non vincere
una Coppa dei
Campioni. Non
una Coppa
Uefa. Non due
Coppe Italia.
Non due
scudetti.
Giocando
sempre in
casa. Episodi
che sanciscono
la
biodiversità
di un
romanista. E
la sua grande
forza. Non nel
sopportare. Ma
nel crederci
sempre, pronto
a cogliere il
canto della
normale
felicità,
quella che non
ci appartiene
di natura: la
felicità
illegale. E
vittoriosa.
Malcom
Pagani/Rivista
Undici".