Ma
cosa avviene negli stadi, quale è il ‘gioco’ che lì si gioca?
Calcio e rugby sono basati sul medesimo concetto. Un concetto che è
reso ancor più chiaro dalle modalità di gioco del football
americano, che è il loro rugby. Il campo è diviso in strisce
da dieci yarde, e ognuna delle due squadre, conquistata una posizione entro
queste strisce, da lì riprende il proprio gioco per conquistare
una successiva più avanzata posizione. Ovvio che la squadra avversa
debba impedirlo, e a questo scopo può menare botte sugli avversari.
Fa punto la squadra che, conquistata una posizione più avanzata
possibile nel campo avverso, riesce a far superare a un suo giocatore con
la palla in mano la linea di meta. In questo scontro ci sono ovviamente
delle regole. Una delle quali è che, mentre si possono dare botte
da orbi a tutti i giocatori che si frappongono alla conquista della palla
tenuta dal lanciatore, non si può colpire il ricevitore finché
non ha la palla. Oltre tutto questo ogni squadra dispone di due team, che
si alternano a seconda di quale dei due contendenti è alla conquista
del territorio avverso. Un team per l’attacco e uno per la difesa. Apripista
e veloce il primo, più nerboruto e picchiatore il secondo.
Questo
schema dovrebbe far venire in mente qualcosa. Conquista di territorio,
botte per conquistarlo e per non farlo conquistare, e vittoria per chi
supera tutto il campo avverso entrando oltre l’ultima linea difensiva.
Territorio, conquista, attacco, difesa, colpi per impedirlo. Pare evidente
che è un ‘gioco di guerra’. E anche la guerra ha le sue ‘regole’,
e organismi che sanzionano il loro mancato rispetto.
Le
diverse regole del calcio non modificano il concetto di fondo. Sempre conquista,
attacco e difesa … e botte. Calci, cazzotti, gomitate, sputacchiate, quando
e non è cosa rara, come nell’ultima di Champions dell’Inter, non
si arriva alla rissa finale. Hai voglia a dire che i giocatori dovrebbero
controllarsi, stanno lì dentro come gladiatori incitati dalla folla
a sconfiggere il ‘nemico’ e si pretende che si comportino da compassati
gentlemen.
Sono
davvero così diversi gli istinti umani, la conflittualità
con l’avversario, la spinta a sopraffarlo, a uscire vincitore dallo scontro,
in una parola è così diversa la carica di violenza esprimibile
in un agone, o individualmente se le circostanze escono dalla norma, da
quella dei tempi dei gladiatori?
Ad
aprire i giornali alle pagine della cronaca, stracariche di violenza e
omicidi i più efferati, e quelle delle pagine internazionali con
le loro guerre che annientano a grappoli uomini, donne e bambini, sembrerebbe
di no. Notando poi che il maggior numero di quelle violenze e i delitti
più efferati, come quello di Erba, sono a carico non della criminalità
ma di ‘gente comune’. Ragione per cui accorpare in un tutt’uno reati e
criminalità nasconde il dato evidente che la violenza è più
del mondo ‘normale’ che di quello del crimine.
E
se possiamo credere che nei tempi di minore evoluzione della ‘civiltà’,
in cui i gladiatori si uccidevano nelle arene, possa esserci stata una
maggiore violenza privata, temo che saremmo in errore. Probabilmente ce
n’era di meno, oppure siamo lì. Perché c’era sempre una qualche
guerra da combattere, e perché negli stadi di allora i gladiatori
morivano. A sublimare la violenza ‘richiesta’ nelle pause delle guerre,
o per quelli che in guerra non andavano.
E
quelle arene gladiatorie ove si celebrava il rito della violenza, circoscritto
ed esorcizzante, nascevano subito dopo i bordelli in ogni città
dell’Impero.
Le
mortali arene gladiatorie non ci sono più, e la si può dare
come una ‘conquista di civiltà’, però c’è sempre la
guerra che, a differenza di allora, è assai più mortale.
Vale a dire che la eliminazione ‘etica’ degli spettacoli mortali, esorcizzanti
e sublimanti, ha avuto come contrappasso un aumento a dismisura della mortalità
per guerra.
E
se poi si fosse così curiosi di andare ancora più indietro
nel tempo per verificare quanto possa essere vero che la ‘Civiltà’
abbia ridotto la violenza, si potrebbe scoprire che il mondo pre-civilizzato
- cioè quello precedente al passaggio definitivo all’agricoltura,
città, stati, scrittura e codici di leggi - non restituisce alcuna
traccia di stermini di massa. Tantomeno di donne e bambini, il cui mantenimento
in vita era fondamentale per qualsiasi popolo. Gli stermini di massa e
indistinti sono arrivati dopo, con la Civiltà. Anche perché
già la popolazione di un singolo territorio eccedeva le sue possibilità
riproduttive. Contrariamente al mondo pre-civile non veniva mantenuto l’equilibrio,
naturale, tra popolazione e territorio ma vigeva il principio, innaturale,
della crescita indipendentemente dal territorio. “Crescete e moltiplicatevi”.
Campagne demografiche datano con certezza già dall’Impero Romano,
per finire alla sua riproposizione nel ventennio fascista con i premi alle
famiglie numerose e la sovrattassa per i celibi. E va da sé che
un’eccedenza di popolazione ha molteplici conseguenze. Diminuisce le disponibilità,
con il doppio effetto di aumentare la violenza e rendere la popolazione
maggiormente disponibile alla guida dei Capi che promettono ‘abbondanza’.
E necessita per questo di ‘nuovi’ territori, conquistabili in forza del
maggior numero di coscritti. Guerra e altra violenza canalizzata ora, proficuamente,
verso il ‘nemico’ esterno. E, alla fine, eterna gloria ai Capi, che dopo
averli messi alla fame li hanno sfamati, come promesso. Di pane e di sangue.
Oggi al posto del pane ci sono il petrolio e i ‘mercati’, variante ‘economica’
dei territori da conquistare. Il sangue invece è sempre lo stesso.
Alla
fine il bilancio etico della ‘Civiltà’ va in negativo. Ce n’è
abbastanza per credere che i grandi passi in avanti siano solo nelle parole,
nei buoni propositi. Gli stessi che lastricano le strade dell’Inferno.
2^
Secondo
una scuola di pensiero, l’uomo è capace di produrre molte parole
per occultare, occultarsi, il suo stretto legame con il mondo animale e
la violenza, naturale, che lì si esprime. A causa di questa scarsa
fede nelle possibilità umane di completa emancipazione da quel mondo,
questo pensiero è stato definito ‘reazionario’. Di contro all’altro
che, credendo in una possibile progressiva emancipazione fondata sulla
diversità razionale dell’uomo dal mondo animale, si è definito
‘progressista’. Mentre il primo aveva dalla sua la realtà contingente
delle vicende umane, l’altro puntava su parziali dati positivi del presente
per rimandare il completo affrancamento al momento, futuro, di una più
piena realizzazione del Progresso, della Civiltà. Superando le stantie
definizioni ideologiche, potrebbe dirsi che il primo, guardando la effettiva
realtà, è un pensiero realista, mentre il secondo, ipotizzando
possibilità future, e incurante della costante contraddizione offerta
dal presente, è trascendente. Laddove questo pensiero, o questa
speranza, storicamente propugnato da forze di ‘sinistra’, sembra essere
di diretta derivazione religiosa. E’ il Cristianesimo che ha fondato un
uomo a immagine e somiglianza di Dio, quindi espunto dal mondo animale,
tendente al bene, se segue certe illuminate regole, e in grado così
di assicurarsi una ricompensa a venire. Da qui la trascendenza che per
la religione vede un futuro compimento ultraterreno, per il pensiero progressista
ugualmente futuro ma terreno. Non verificabile il primo e sempre rimandato
per occasionali contingenze negative il secondo. Ove contingenze negative
sono la criminalità e la guerra, da eliminare negli intenti ma mai
eliminate nella realtà.
Ma
ogni considerazione sulla natura umana, religiosa o razionale che sia,
lascia il tempo che trova perché, avendo alle spalle migliaia di
anni in cui l’uomo ha vissuto la sua vita in forme sociali via via più
complesse, e artificiali, cioè frutto della ragione, è alquanto
difficile rintracciare una sua ‘naturalità’.
Ciò
non di meno quelle diverse impostazioni di fondo continuano a produrre
i loro effetti. Secondo il pensiero realista ogni forma sociale ha un portato
di violenza. La si può contenere ma non eliminare. E’ un dato di
fatto. Potrebbe essere per la naturale tendenza umana ma, pur supponendo
questa e volendo superare l’approccio filosofico, si può aggiungere
che è la stessa forma sociale, nel suo statuto di cessione di parte
delle libertà individuali a favore delle istituzioni, tra cui proprio
l’esercizio della ‘forza’, o violenza, nonché la necessità
di sottostare a regole sociali, che determina una sottesa tensione tra
l’affermazione individuale e quella collettiva. Una tensione che, data
dall’artificialità comprimente delle forme sociali, può innervarsi
alla supponibile tendenza naturale sfociando nella violenza.
Per
il pensiero progressista la violenza andrebbe invece eliminata per realizzare,
in un futuro indeterminato, e trascendente, quella tendenza al bene propria
del genere umano.
Da qui, anche dopo i fatti di Catania, le proposte ‘educative’ che dovrebbero partire dalle scuole per formare soggetti che, in virtù di insegnamenti razionali, e astratti, riescano a canalizzare positivamente le proprie pulsioni. Pulsioni negative che, si ripete, sarebbero un remoto retaggio del mondo ‘naturale’ da cui l’uomo può, e deve, affrancarsi applicando la discriminante razionale che di per sé è ‘bene’. Discorso che è pedissequo di quello religioso che vuole la repressione degli impulsi sessuali, negativi perché rendono l’uomo schiavo della ‘carne’, cioè del suo corpo, cioè di se stesso. Sembrerebbe lampante che il corpo, la nostra terrena concretezza, è rimasto quello che era all’età della pietra mentre la nostra ragione, nella sua ultraterrena astrattezza, abbia compiuto passi da gigante. E da questo Olimpo di saggezza debba contenere, limitare, reprimere ciò che il corpo esprime. La ragione ‘amica’ e il corpo ‘nemico’. Vale a dire che l’astrattezza del pensiero deve avere il predominio sulla nostra concreta realtà. E si dice ai giovani di non fantasticare, di restare ancorati alla realtà.
E’
strano ma quella correctness, quella pervasività del politically
correct, quel buonismo, sembrano avere invaso di sé anche minuti
comportamenti. Si vedono mamme che ai figli i quali, naturalmente, si scatenano
nei parchi, intimano di non giocare con sassi e bastoni. E io stesso, confesso,
reprimo mio figlio quando vedo che i suoi giochi con gli amichetti assumono
forma di ‘gioco di guerra’.
Eppure,
almeno fino agli ’70, quei genitori, per non parlare di chi come me è
cresciuto negli anni ’50, hanno giocato in strada facendo dei ‘giochi di
guerra’, dai simulati ai più cruenti, una delle loro attività
preferite. E non è questa una caratteristica legata alle fasce sociali,
quindi a quartieri periferici dove meno è giunta la luce della ‘civiltà’
e della ‘correttezza’. Ai miei tempi la ‘strada’ era del tutto interclassista.
C’era il figlio del portiere e quello del fruttivendolo, ma anche quello
dell’avvocato o dell’architetto, e tutti indistintamente animati dalla
stessa passione per le ‘battaglie’, che fossero con archi e frecce ricavati
dagli arbusti o con cerbottane caricate a stucco, fino alle più
cruente sassaiole. Per non parlare dei ricorrenti scontri fisici che, in
un non detto che rimandava a uno stadio precedente la razionalità,
scaturivano dalla spinta alla supremazia riconosciuta all’interno del gruppo.
Tutti i giochi, che fossero anche gli incruenti ‘nascondino’ o ‘acchiapparella’,
avevano la manifesta peculiarità di mettere alla prova, e temprare,
capacità fisiche e ‘tattiche’ ancestralmente (?) finalizzate alla
caccia, o alla guerra. Da qui il passaggio senza soluzione di continuità
psicologica ai giochi più apertamente violenti.
Così
come, ancor oggi che la razionalità pretende vieppiù di poter
dominare i comportamenti umani, i cuccioli d’uomo, dai quartieri ‘bene’
a quelli periferici, messi all’asilo in socialità, e competizione,
con altri bambini hanno la tendenza, ancor prima di riuscire a camminare,
di spaccarsi i giocattoli contesi sulla testa. Per non parlare anche qui
delle lotte a graffi, morsi, pugni e calci. E, contrariamente alla correctness
e al buonismo imperanti, non pochi educatori ritengono che sia questa una
essenziale fase ‘formativa’, e che i bambini tenuti a casa, con la nonna,
abbiano poi a soffrirne quando con la socialità, e la competizione,
dovranno necessariamente fare i conti.
Ma,
se il problema fosse quello di educare fin dalla più tenera età
a rimuovere con la ragione, e i valori ‘etici’, gli impulsi negativi alla
violenza, ci dovemmo chiedere come mai altra gioventù viene invece
educata a utilizzarli. Non avendo più un esercito di leva formato
da paciocconi figli di mamma ma un esercito professionale la cui ossatura
sono corpi speciali, i giovani che lì finiscono sono addestrati
a uccidere. Con armi da fuoco, pugnali e, in assenza di questi, con le
mani, insegnando al dettaglio quali siano nel corpo umano i punti da colpire
per ottenere l’effetto desiderato. Questa contraddizione ‘educativa’ sarebbe
di per sé già lampante anche se fosse puramente ‘teorica’,
ma sappiamo che così non è. Visto che i nostri soldati, in
spregio al valore ‘etico’ del rifiuto della guerra sancito dalla Costituzione,
valore ‘etico’ della stessa natura di quelli che si vorrebbero insegnati
nelle scuole, vengono mandati in giro per il mondo in teatri di guerra
ove possono uccidere e hanno ucciso. E sono stati uccisi.
Proviamo
da questi discorsi sulla tensione tra affermazione individuale e collettiva,
e sulla contraddittoria vacuità del buonismo politically correct,
a tornare al ‘teppismo’ fuori dagli stadi.
Teppista
viene da teppa, gentaglia di città. Cioè, per definizione,
giovani e meno giovani dei suburbi che, per l’indole (?) scarsamente ‘civilizzata’,
nonché per le loro frequentazioni in ambiti sociali degradati e,
ancora, non adeguatamente civilizzati, hanno la tendenza a comportamenti
distruttivi e violenti. Andrebbe aggiunto a onor del vero che tale carica
di violenza distruttiva può anche essere originata dalla non accettazione
di una condizione socialmente degradata, ed economicamente svantaggiata,
a fronte del non degrado e della ricchezza delle zone della città
in cui solitamente scorribandano.
Ma
andiamo a vedere chi sono i ‘fermati’ per i fatti di Catania. Figli di
professionisti, classe media e, addirittura, il figlio di un poliziotto
pari pari a quello che è stato ammazzato. Per quanto si possano
definire teppistici i loro comportamenti, con una semplificazione che già
lascia intravedere la non volontà di interrogarsi a fondo sul fenomeno,
ciò non di meno non sono propriamente ‘teppaglia’. Al contrario
provengono da un ambiente di cui si suppone l’aderenza al politically correct,
a un grado di ‘civilizzazione’ che espunga la violenza dai propri comportamenti.
Anche perché, vista la collocazione sociale garantita, non ne avrebbe
bisogno.
Perché
allora?
La
gioventù, per l’età e per la maggiore vitalità individuale,
e individualistica, nonché per l’incompleto inserimento nello ‘statuto
sociale’ che si ha solitamente con il lavoro e una famiglia, è la
fascia sociale che ha la maggiore tendenza a esprimere la contraddizione
tra la spinta all’affermazione individuale e l’affermazione/mantenimento
delle regole che limitano e incanalano quella spinta.
Per
tutto il ’900 questa spinta e questa contraddizione hanno trovato grande
sbocco d’espressione per la gioventù attraverso la politica. La
politica, le ideologie, hanno cioè fornito un quadro di riferimento
che quella contraddizione spiegava in termini storici, facendole quindi
superare l’ambito individuale, e, al contempo, offrivano strumenti per
una sua soluzione.
Le
ideologie palingenetiche del ‘900 per un ‘nuovo uomo’ non sono più.
Morte queste ciò che è rimasto non è lo ‘spirito’
europeo sempre comunque puntato a valorizzare un disegno sociale, ma il
modello individualistico americano che basa la realizzazione di una ‘buona
società’ sul raggiungimento di status economico da parte del singolo.
L’assioma è che se ciascuno riesce ad affermare economicamente se
stesso, ed ha in questo la massima libertà, giocoforza e per espansione
la società afferma se stessa.
Ora,
e per paradosso, il venire meno dell’orizzonte politico-ideologico che
canalizzava la contraddizione individuo/società ha aperto un buco
nelle modalità d’espressione del contrasto. Modalità che
per i soggetti meno speranzosi dell’affermazione di sé ha comportato
la fuga nella droga, cioè la sottrazione, l’assenza. Mentre per
quelli individualmente maggiormente determinati un’addizione di carica,
una maggiore presenza nel contrasto.
Ma
priva di qualsivoglia punto di riferimento risolutivo - sia nel venire
meno dell’ideologia sia per la giungla della realizzazione economica in
cui ognuno è abbandonato a se stesso contro tutti - la violenza
che quel contrasto genera non ha più né bordi né obbiettivi.
Con maggior rabbia per l’assenza di sbocchi risolutivi esprime unicamente
se stessa. E’ futile. E siamo tornati alla esacerbazione provocata dalla
morte di un uomo per i futili motivi del ‘pallone’.
Va
da sé che ricercare i motivi di quanto accade, e del nostro sconcerto
nel vederlo accadere, non può tradursi nella vecchia solfa che la
colpa è della società. Ragion per cui si può essere
portati a giustificare qualsiasi comportamento da quella colpa originato.
Sarebbe come individuare nel dissesto idro-geologico causato dall’uomo
la ragione delle ricorrenti frane ma non fare nulla per fermare quelle
in corso. Così come, al rovescio, sarebbe dissennato limitarsi a
fermare ogni frana senza porre mano al motivo che le causa.
Tenendo
quindi presente che quando si manifestano esplosioni sociali di violenza
il problema non è mai soltanto la loro fenomenica manifestazione,
qualcosa va fatto per prevenire la trasformazione di una partita di calcio
in occasione di violenze. Si potrebbero inasprire le pene … o si potrebbe
eliminare il calcio. La prima strada è certamente la più
facile, visto che il calcio più che uno sport è ormai un
business miliardario. Ma, per quanto all’apparenza più facile, la
via dell’inasprimento delle pene è complessa e non è detto
che sia risolutiva. I reati eventualmente commessi sono difficilmente accorpabili
all’occasione in cui sono avvenuti. Dovrebbe introdursi un aggravante perché
commessi in occasione di una partita di calcio? Diversamente sotto l’aggravamento
delle pene ricadrebbero tutti i reati di uguale natura ma commessi altrimenti.
Quanto
all’ipotetica eliminazione del calcio, visto che è occasione di
morte e violenze inaccettabili, tanto quanto il Prefetto può vietare
qualsiasi pubblica manifestazione se ritiene che possano originarne violenze,
rimarrebbe il problema che il ‘tifo teppista’ potrebbe spostare altrove
la ricerca di ‘occasioni’. Magari al rugby. Quindi andrebbe eliminato anche
quello. Ma poi ci sarebbe la pallacanestro. Altro sport in cui l’agone
fisico dei contendenti su territori da conquistare per battere l’avversario
richiama la guerra, e quindi la violenza sottesa. E poi ci sarebbe la pallanuoto,
dove sott’acqua per celarlo all’arbitro, i giocatori si danno colpi proibiti.
Alla fine rimarrebbero solo gli sport in cui non c’è contrasto fisico.
Ma
pure arrivando a questo assai improbabile limite, che ne sarebbe poi della
esorcizzazione e sublimazione della violenza rappresentata da quegli sport,
e sufficiente a placare gli spettatori non animati da spirito ‘teppistico’?
Sotto a tutto, perché l’apparenza del mondo è cambiata ma
la sua sostanza proprio no, vale ancora per la stabilità interna
la vecchia regola di panem e circenses.
Nel
1729 l’irlandese Jonathan Swift, l’autore de I viaggi di Gulliver, caustico
fustigatore della società del tempo considerato tra i maestri della
prosa in lingua inglese, a fronte della cronica miseria dell’Irlanda scrisse
il pamphlet “Una modesta proposta per impedire che i figli dei poveri
diventino di peso ai genitori o al paese”. La ‘proposta’, corredata
di adeguate e sofisticate ricette, era quella di usare i bambini poveri
irlandesi come cibo per i ricchi.
Visto
che, come allora per la miseria irlandese, ci si tappa gli occhi di fronte
ai problemi di fondo, e ci si illude di poter giungere a una società
del tutto governata dalla ragione e quindi immune dalla violenza, una ‘modesta
proposta’ per dirimere la questione del teppismo da stadio potrebbe essere
quella di riaprire le arene gladiatorie e farci combattere gli extracomunitari.
Gli odierni ‘ultimi’ come allora gli irlandesi.