Valerio Morucci sui fatti di Catania
E perché no la pena di morte? Potrebbe essere un maggiore deterrente. Potrebbe ma non lo è. Basta vedere il tasso di omicidi negli stati americani dove è in vigore. E’ una reazione comprensibile ai tragici episodi di Catania quella di pensare subito a una possibile soluzione tramite l’inasprimento delle pene. Che si uccida un poliziotto ai margini di una partita di pallone manda il sangue alla testa a chiunque. Ma perché? Per la futilità dei motivi, forse. Quindi la futilità come esecrabile aggravante. Lo sostengono in molti, compresi raffinati intellettuali come Claudio Magris sul Corriere della Sera.
Non mi sembra però che Claudio Magris, o chi per lui, abbia mai speso parole, per esempio, sui cinque operai che muoiono ogni giorno per ‘incidenti’ sul lavoro. Un numero annuo che è superiore ai soldati americani morti in Iraq in quattro anni di guerra. E quei mortali ‘incidenti’ sono dovuti in oltre il 90% dei casi a insufficienza delle misure di sicurezza, o a disattenzioni causate dall’eccessivo carico di lavoro, soprattutto nell’edilizia dove, per gli extracomunitari reclutati in nero dai ‘caporali’, vige il lavoro a cottimo. Per reggere i cui ritmi, e aumentare la produzione, sempre più edili fanno uso di cocaina. Passatagli dai solerti ‘caporali’.
Se la futilità dei motivi è un’aggravante, quanto lo è l’interesse? C’è da supporre maggiore. Tanto più perché quello che causa le ‘morti di lavoro’ è un reato a freddo, non a caldo come negli scontri di strada, premeditato e con piena consapevolezza delle conseguenze e dei motivi per cui lo si compie, il proprio maggiore profitto, quindi anche la pena dovrebbe essere maggiore. Ma anziché una pena maggiore, come si è creduto di rimediare alla piaga di tutte queste morti? Dando incentivi agli imprenditori che adeguino alla norma le misure di sicurezza. Come se, anziché di vite umane, si trattasse di ridurre l’inquinamento installando una più adeguata caldaia da riscaldamento.
A partire dalle misure adottate si può ritenere che la ‘morte per lavoro’ sia considerato un problema sociale non affrontabile con il codice penale, mentre la ‘morte per pallone’ sarebbe problema criminale da affrontare con un inasprimento delle pene.
Vale a dire, in termini di pelle e di sangue alla testa, che quei duemila cadaveri annui non chiedono vendetta mentre la chiede un singolo cadavere. Va da sé che anche una singola morte vada perseguita, e cercato di impedire che se ne abbiano altre, ma risulta evidente non solo una sperequazione nelle misure, sanzionatorie e dissuasive, ma anche una diversa percezione della gravità del reato.
Eppure, essendo questa repubblica “fondata sul lavoro”, e non sul calcio (errore Morucci, errore!), l’attenzione e la sensibilità sociale portata ai rischi del primo dovrebbe essere maggiore che non quella portata ai rischi del secondo. A meno che non concorra in questa diversità di percezione, e di sanzione, l’introiezione del lavoro come condanna biblica, sudore e sofferenza, che porta a vedere anche la morte come una sua possibile ineluttabile conseguenza.
Ragion per cui una morte causata dal lavoro la si può percepire come fosse stata causata da un fulmine improvviso, mentre una morte causata dal pallone la troviamo insopportabile in quanto occorsa nel tempo altro dal lavoro, dove non può esserci la morte che là lascia indifferenti perché è tempo di gioco e divertimento, tempo liberato dalla condanna del lavoro. Se così è sarebbe forse il caso di ripensare il rapporto che abbiamo con il lavoro. Tempo perso e alienante da far passare in fretta in funzione dell’altro tempo, quello liberato dal lavoro e che si percepisce come proprio. Non perché il tempo liberato sia meno importante dell’altro, è esattamente il contrario, ma perché può essere dal modo dissociato e nevrotico in cui si vive il tempo di lavoro che dipenda poi il modo in cui si fruisce del tempo libero. Se, a differenza delle precedenti generazioni, non si percepisce più del lavoro la sua ‘etica’, se cioè si è raggiunta la percezione sociale che il lavoro non sia più costruttivo, emancipativo e tutta l’ideologia su questo impiantata, ma che al contrario è puro mezzo di sopravvivenza e che la costruzione, sociale e di sé, e l’emancipazione passino per il tempo dal lavoro liberato, proprio perché libero e non coatto, dovremmo allora cercare di trarre da questo considerazioni che investano la pienezza del tempo vissuto. Superando l’attuale schizofrenia che lo fa vivere separato e in contrasto.
Ma, detto questo che rimanda ad altro e più generale discorso, torniamo al problema della diversa percezione tra le morti di lavoro, prese a paragone di misura, e le morti da pallone.
Se le ‘morti di lavoro’ sono un problema sociale, e come tale affrontato, siamo altrettanto sicuri che non lo siano anche le ‘morti di pallone’ in tutt’altro modo affrontate?
Siamo così sicuri che gli stadi del calcio siano soltanto e unicamente un luogo dove ventidue uomini in mutande si contendono una palla?
E siamo così sicuri che gli scontri tra tifosi e polizia siano originati da quanto in quegli stadi avviene, oppure che lo stadio e il pallone non siano che un’occasione per radunarsi e scontrasi con la polizia?
A quest’ultima notazione alcuni ci sono giunti, ma non sembra che ne abbiano tratto tutte le dovute conseguenze. Si è passati dallo scontro per il pallone allo scontro per puro spirito teppistico, e la cosa è rimasta confinata in un ambito di esecrazione per la criminalità dei singoli, o dei gruppi.
C’è da dubitare che il pallone possa essere solo un’occasione. Perché il livello di violenza e di esacerbazione raggiunto attorno agli stadi è maggiore di quello che si manifesta in altre occasioni di raduni di massa. Ultimamente la violenza è molto rarefatta addirittura nelle manifestazioni politiche, in tempi non troppo lontani occasione privilegiata di ‘scontro’. Quindi il pallone c’entra.

Ma cosa avviene negli stadi, quale è il ‘gioco’ che lì si gioca? Calcio e rugby sono basati sul medesimo concetto. Un concetto che è reso ancor più chiaro dalle modalità di gioco del football americano, che è il loro rugby. Il campo è diviso in strisce da dieci yarde, e ognuna delle due squadre, conquistata una posizione entro queste strisce, da lì riprende il proprio gioco per conquistare una successiva più avanzata posizione. Ovvio che la squadra avversa debba impedirlo, e a questo scopo può menare botte sugli avversari. Fa punto la squadra che, conquistata una posizione più avanzata possibile nel campo avverso, riesce a far superare a un suo giocatore con la palla in mano la linea di meta. In questo scontro ci sono ovviamente delle regole. Una delle quali è che, mentre si possono dare botte da orbi a tutti i giocatori che si frappongono alla conquista della palla tenuta dal lanciatore, non si può colpire il ricevitore finché non ha la palla. Oltre tutto questo ogni squadra dispone di due team, che si alternano a seconda di quale dei due contendenti è alla conquista del territorio avverso. Un team per l’attacco e uno per la difesa. Apripista e veloce il primo, più nerboruto e picchiatore il secondo.
Questo schema dovrebbe far venire in mente qualcosa. Conquista di territorio, botte per conquistarlo e per non farlo conquistare, e vittoria per chi supera tutto il campo avverso entrando oltre l’ultima linea difensiva. Territorio, conquista, attacco, difesa, colpi per impedirlo. Pare evidente che è un ‘gioco di guerra’. E anche la guerra ha le sue ‘regole’, e organismi che sanzionano il loro mancato rispetto.
Le diverse regole del calcio non modificano il concetto di fondo. Sempre conquista, attacco e difesa … e botte. Calci, cazzotti, gomitate, sputacchiate, quando e non è cosa rara, come nell’ultima di Champions dell’Inter, non si arriva alla rissa finale. Hai voglia a dire che i giocatori dovrebbero controllarsi, stanno lì dentro come gladiatori incitati dalla folla a sconfiggere il ‘nemico’ e si pretende che si comportino da compassati gentlemen.
Sono davvero così diversi gli istinti umani, la conflittualità con l’avversario, la spinta a sopraffarlo, a uscire vincitore dallo scontro, in una parola è così diversa la carica di violenza esprimibile in un agone, o individualmente se le circostanze escono dalla norma, da quella dei tempi dei gladiatori?
Ad aprire i giornali alle pagine della cronaca, stracariche di violenza e omicidi i più efferati, e quelle delle pagine internazionali con le loro guerre che annientano a grappoli uomini, donne e bambini, sembrerebbe di no. Notando poi che il maggior numero di quelle violenze e i delitti più efferati, come quello di Erba, sono a carico non della criminalità ma di ‘gente comune’. Ragione per cui accorpare in un tutt’uno reati e criminalità nasconde il dato evidente che la violenza è più del mondo ‘normale’ che di quello del crimine.
E se possiamo credere che nei tempi di minore evoluzione della ‘civiltà’, in cui i gladiatori si uccidevano nelle arene, possa esserci stata una maggiore violenza privata, temo che saremmo in errore. Probabilmente ce n’era di meno, oppure siamo lì. Perché c’era sempre una qualche guerra da combattere, e perché negli stadi di allora i gladiatori morivano. A sublimare la violenza ‘richiesta’ nelle pause delle guerre, o per quelli che in guerra non andavano.
E quelle arene gladiatorie ove si celebrava il rito della violenza, circoscritto ed esorcizzante, nascevano subito dopo i bordelli in ogni città dell’Impero.
Le mortali arene gladiatorie non ci sono più, e la si può dare come una ‘conquista di civiltà’, però c’è sempre la guerra che, a differenza di allora, è assai più mortale. Vale a dire che la eliminazione ‘etica’ degli spettacoli mortali, esorcizzanti e sublimanti, ha avuto come contrappasso un aumento a dismisura della mortalità per guerra.
E se poi si fosse così curiosi di andare ancora più indietro nel tempo per verificare quanto possa essere vero che la ‘Civiltà’ abbia ridotto la violenza, si potrebbe scoprire che il mondo pre-civilizzato - cioè quello precedente al passaggio definitivo all’agricoltura, città, stati, scrittura e codici di leggi - non restituisce alcuna traccia di stermini di massa. Tantomeno di donne e bambini, il cui mantenimento in vita era fondamentale per qualsiasi popolo. Gli stermini di massa e indistinti sono arrivati dopo, con la Civiltà. Anche perché già la popolazione di un singolo territorio eccedeva le sue possibilità riproduttive. Contrariamente al mondo pre-civile non veniva mantenuto l’equilibrio, naturale, tra popolazione e territorio ma vigeva il principio, innaturale, della crescita indipendentemente dal territorio. “Crescete e moltiplicatevi”. Campagne demografiche datano con certezza già dall’Impero Romano, per finire alla sua riproposizione nel ventennio fascista con i premi alle famiglie numerose e la sovrattassa per i celibi. E va da sé che un’eccedenza di popolazione ha molteplici conseguenze. Diminuisce le disponibilità, con il doppio effetto di aumentare la violenza e rendere la popolazione maggiormente disponibile alla guida dei Capi che promettono ‘abbondanza’. E necessita per questo di ‘nuovi’ territori, conquistabili in forza del maggior numero di coscritti. Guerra e altra violenza canalizzata ora, proficuamente, verso il ‘nemico’ esterno. E, alla fine, eterna gloria ai Capi, che dopo averli messi alla fame li hanno sfamati, come promesso. Di pane e di sangue. Oggi al posto del pane ci sono il petrolio e i ‘mercati’, variante ‘economica’ dei territori da conquistare. Il sangue invece è sempre lo stesso.
Alla fine il bilancio etico della ‘Civiltà’ va in negativo. Ce n’è abbastanza per credere che i grandi passi in avanti siano solo nelle parole, nei buoni propositi. Gli stessi che lastricano le strade dell’Inferno.

2^

Secondo una scuola di pensiero, l’uomo è capace di produrre molte parole per occultare, occultarsi, il suo stretto legame con il mondo animale e la violenza, naturale, che lì si esprime. A causa di questa scarsa fede nelle possibilità umane di completa emancipazione da quel mondo, questo pensiero è stato definito ‘reazionario’. Di contro all’altro che, credendo in una possibile progressiva emancipazione fondata sulla diversità razionale dell’uomo dal mondo animale, si è definito ‘progressista’. Mentre il primo aveva dalla sua la realtà contingente delle vicende umane, l’altro puntava su parziali dati positivi del presente per rimandare il completo affrancamento al momento, futuro, di una più piena realizzazione del Progresso, della Civiltà. Superando le stantie definizioni ideologiche, potrebbe dirsi che il primo, guardando la effettiva realtà, è un pensiero realista, mentre il secondo, ipotizzando possibilità future, e incurante della costante contraddizione offerta dal presente, è trascendente. Laddove questo pensiero, o questa speranza, storicamente propugnato da forze di ‘sinistra’, sembra essere di diretta derivazione religiosa. E’ il Cristianesimo che ha fondato un uomo a immagine e somiglianza di Dio, quindi espunto dal mondo animale, tendente al bene, se segue certe illuminate regole, e in grado così di assicurarsi una ricompensa a venire. Da qui la trascendenza che per la religione vede un futuro compimento ultraterreno, per il pensiero progressista ugualmente futuro ma terreno. Non verificabile il primo e sempre rimandato per occasionali contingenze negative il secondo. Ove contingenze negative sono la criminalità e la guerra, da eliminare negli intenti ma mai eliminate nella realtà.
Ma ogni considerazione sulla natura umana, religiosa o razionale che sia, lascia il tempo che trova perché, avendo alle spalle migliaia di anni in cui l’uomo ha vissuto la sua vita in forme sociali via via più complesse, e artificiali, cioè frutto della ragione, è alquanto difficile rintracciare una sua ‘naturalità’.
Ciò non di meno quelle diverse impostazioni di fondo continuano a produrre i loro effetti. Secondo il pensiero realista ogni forma sociale ha un portato di violenza. La si può contenere ma non eliminare. E’ un dato di fatto. Potrebbe essere per la naturale tendenza umana ma, pur supponendo questa e volendo superare l’approccio filosofico, si può aggiungere che è la stessa forma sociale, nel suo statuto di cessione di parte delle libertà individuali a favore delle istituzioni, tra cui proprio l’esercizio della ‘forza’, o violenza, nonché la necessità di sottostare a regole sociali, che determina una sottesa tensione tra l’affermazione individuale e quella collettiva. Una tensione che, data dall’artificialità comprimente delle forme sociali, può innervarsi alla supponibile tendenza naturale sfociando nella violenza.
Per il pensiero progressista la violenza andrebbe invece eliminata per realizzare, in un futuro indeterminato, e trascendente, quella tendenza al bene propria del genere umano.

Da qui, anche dopo i fatti di Catania, le proposte ‘educative’ che dovrebbero partire dalle scuole per formare soggetti che, in virtù di insegnamenti razionali, e astratti, riescano a canalizzare positivamente le proprie pulsioni. Pulsioni negative che, si ripete, sarebbero un remoto retaggio del mondo ‘naturale’ da cui l’uomo può, e deve, affrancarsi applicando la discriminante razionale che di per sé è ‘bene’. Discorso che è pedissequo di quello religioso che vuole la repressione degli impulsi sessuali, negativi perché rendono l’uomo schiavo della ‘carne’, cioè del suo corpo, cioè di se stesso. Sembrerebbe lampante che il corpo, la nostra terrena concretezza, è rimasto quello che era all’età della pietra mentre la nostra ragione, nella sua ultraterrena astrattezza, abbia compiuto passi da gigante. E da questo Olimpo di saggezza debba contenere, limitare, reprimere ciò che il corpo esprime. La ragione ‘amica’ e il corpo ‘nemico’. Vale a dire che l’astrattezza del pensiero deve avere il predominio sulla nostra concreta realtà. E si dice ai giovani di non fantasticare, di restare ancorati alla realtà.

E’ strano ma quella correctness, quella pervasività del politically correct, quel buonismo, sembrano avere invaso di sé anche minuti comportamenti. Si vedono mamme che ai figli i quali, naturalmente, si scatenano nei parchi, intimano di non giocare con sassi e bastoni. E io stesso, confesso, reprimo mio figlio quando vedo che i suoi giochi con gli amichetti assumono forma di ‘gioco di guerra’.
Eppure, almeno fino agli ’70, quei genitori, per non parlare di chi come me è cresciuto negli anni ’50, hanno giocato in strada facendo dei ‘giochi di guerra’, dai simulati ai più cruenti, una delle loro attività preferite. E non è questa una caratteristica legata alle fasce sociali, quindi a quartieri periferici dove meno è giunta la luce della ‘civiltà’ e della ‘correttezza’. Ai miei tempi la ‘strada’ era del tutto interclassista. C’era il figlio del portiere e quello del fruttivendolo, ma anche quello dell’avvocato o dell’architetto, e tutti indistintamente animati dalla stessa passione per le ‘battaglie’, che fossero con archi e frecce ricavati dagli arbusti o con cerbottane caricate a stucco, fino alle più cruente sassaiole. Per non parlare dei ricorrenti scontri fisici che, in un non detto che rimandava a uno stadio precedente la razionalità, scaturivano dalla spinta alla supremazia riconosciuta all’interno del gruppo. Tutti i giochi, che fossero anche gli incruenti ‘nascondino’ o ‘acchiapparella’, avevano la manifesta peculiarità di mettere alla prova, e temprare, capacità fisiche e ‘tattiche’ ancestralmente (?) finalizzate alla caccia, o alla guerra. Da qui il passaggio senza soluzione di continuità psicologica ai giochi più apertamente violenti.
Così come, ancor oggi che la razionalità pretende vieppiù di poter dominare i comportamenti umani, i cuccioli d’uomo, dai quartieri ‘bene’ a quelli periferici, messi all’asilo in socialità, e competizione, con altri bambini hanno la tendenza, ancor prima di riuscire a camminare, di spaccarsi i giocattoli contesi sulla testa. Per non parlare anche qui delle lotte a graffi, morsi, pugni e calci. E, contrariamente alla correctness e al buonismo imperanti, non pochi educatori ritengono che sia questa una essenziale fase ‘formativa’, e che i bambini tenuti a casa, con la nonna, abbiano poi a soffrirne quando con la socialità, e la competizione, dovranno necessariamente fare i conti.
Ma, se il problema fosse quello di educare fin dalla più tenera età a rimuovere con la ragione, e i valori ‘etici’, gli impulsi negativi alla violenza, ci dovemmo chiedere come mai altra gioventù viene invece educata a utilizzarli. Non avendo più un esercito di leva formato da paciocconi figli di mamma ma un esercito professionale la cui ossatura sono corpi speciali, i giovani che lì finiscono sono addestrati a uccidere. Con armi da fuoco, pugnali e, in assenza di questi, con le mani, insegnando al dettaglio quali siano nel corpo umano i punti da colpire per ottenere l’effetto desiderato. Questa contraddizione ‘educativa’ sarebbe di per sé già lampante anche se fosse puramente ‘teorica’, ma sappiamo che così non è. Visto che i nostri soldati, in spregio al valore ‘etico’ del rifiuto della guerra sancito dalla Costituzione, valore ‘etico’ della stessa natura di quelli che si vorrebbero insegnati nelle scuole, vengono mandati in giro per il mondo in teatri di guerra ove possono uccidere e hanno ucciso. E sono stati uccisi.

Proviamo da questi discorsi sulla tensione tra affermazione individuale e collettiva, e sulla contraddittoria vacuità del buonismo politically correct, a tornare al ‘teppismo’ fuori dagli stadi.
Teppista viene da teppa, gentaglia di città. Cioè, per definizione, giovani e meno giovani dei suburbi che, per l’indole (?) scarsamente ‘civilizzata’, nonché per le loro frequentazioni in ambiti sociali degradati e, ancora, non adeguatamente civilizzati, hanno la tendenza a comportamenti distruttivi e violenti. Andrebbe aggiunto a onor del vero che tale carica di violenza distruttiva può anche essere originata dalla non accettazione di una condizione socialmente degradata, ed economicamente svantaggiata, a fronte del non degrado e della ricchezza delle zone della città in cui solitamente scorribandano.
Ma andiamo a vedere chi sono i ‘fermati’ per i fatti di Catania. Figli di professionisti, classe media e, addirittura, il figlio di un poliziotto pari pari a quello che è stato ammazzato. Per quanto si possano definire teppistici i loro comportamenti, con una semplificazione che già lascia intravedere la non volontà di interrogarsi a fondo sul fenomeno, ciò non di meno non sono propriamente ‘teppaglia’. Al contrario provengono da un ambiente di cui si suppone l’aderenza al politically correct, a un grado di ‘civilizzazione’ che espunga la violenza dai propri comportamenti. Anche perché, vista la collocazione sociale garantita, non ne avrebbe bisogno.
Perché allora?
La gioventù, per l’età e per la maggiore vitalità individuale, e individualistica, nonché per l’incompleto inserimento nello ‘statuto sociale’ che si ha solitamente con il lavoro e una famiglia, è la fascia sociale che ha la maggiore tendenza a esprimere la contraddizione tra la spinta all’affermazione individuale e l’affermazione/mantenimento delle regole che limitano e incanalano quella spinta.
Per tutto il ’900 questa spinta e questa contraddizione hanno trovato grande sbocco d’espressione per la gioventù attraverso la politica. La politica, le ideologie, hanno cioè fornito un quadro di riferimento che quella contraddizione spiegava in termini storici, facendole quindi superare l’ambito individuale, e, al contempo, offrivano strumenti per una sua soluzione.
Le ideologie palingenetiche del ‘900 per un ‘nuovo uomo’ non sono più. Morte queste ciò che è rimasto non è lo ‘spirito’ europeo sempre comunque puntato a valorizzare un disegno sociale, ma il modello individualistico americano che basa la realizzazione di una ‘buona società’ sul raggiungimento di status economico da parte del singolo. L’assioma è che se ciascuno riesce ad affermare economicamente se stesso, ed ha in questo la massima libertà, giocoforza e per espansione la società afferma se stessa.
Ora, e per paradosso, il venire meno dell’orizzonte politico-ideologico che canalizzava la contraddizione individuo/società ha aperto un buco nelle modalità d’espressione del contrasto. Modalità che per i soggetti meno speranzosi dell’affermazione di sé ha comportato la fuga nella droga, cioè la sottrazione, l’assenza. Mentre per quelli individualmente maggiormente determinati un’addizione di carica, una maggiore presenza nel contrasto.
Ma priva di qualsivoglia punto di riferimento risolutivo - sia nel venire meno dell’ideologia sia per la giungla della realizzazione economica in cui ognuno è abbandonato a se stesso contro tutti - la violenza che quel contrasto genera non ha più né bordi né obbiettivi. Con maggior rabbia per l’assenza di sbocchi risolutivi esprime unicamente se stessa. E’ futile. E siamo tornati alla esacerbazione provocata dalla morte di un uomo per i futili motivi del ‘pallone’.
Va da sé che ricercare i motivi di quanto accade, e del nostro sconcerto nel vederlo accadere, non può tradursi nella vecchia solfa che la colpa è della società. Ragion per cui si può essere portati a giustificare qualsiasi comportamento da quella colpa originato. Sarebbe come individuare nel dissesto idro-geologico causato dall’uomo la ragione delle ricorrenti frane ma non fare nulla per fermare quelle in corso. Così come, al rovescio, sarebbe dissennato limitarsi a fermare ogni frana senza porre mano al motivo che le causa.
Tenendo quindi presente che quando si manifestano esplosioni sociali di violenza il problema non è mai soltanto la loro fenomenica manifestazione, qualcosa va fatto per prevenire la trasformazione di una partita di calcio in occasione di violenze. Si potrebbero inasprire le pene … o si potrebbe eliminare il calcio. La prima strada è certamente la più facile, visto che il calcio più che uno sport è ormai un business miliardario. Ma, per quanto all’apparenza più facile, la via dell’inasprimento delle pene è complessa e non è detto che sia risolutiva. I reati eventualmente commessi sono difficilmente accorpabili all’occasione in cui sono avvenuti. Dovrebbe introdursi un aggravante perché commessi in occasione di una partita di calcio? Diversamente sotto l’aggravamento delle pene ricadrebbero tutti i reati di uguale natura ma commessi altrimenti.
Quanto all’ipotetica eliminazione del calcio, visto che è occasione di morte e violenze inaccettabili, tanto quanto il Prefetto può vietare qualsiasi pubblica manifestazione se ritiene che possano originarne violenze, rimarrebbe il problema che il ‘tifo teppista’ potrebbe spostare altrove la ricerca di ‘occasioni’. Magari al rugby. Quindi andrebbe eliminato anche quello. Ma poi ci sarebbe la pallacanestro. Altro sport in cui l’agone fisico dei contendenti su territori da conquistare per battere l’avversario richiama la guerra, e quindi la violenza sottesa. E poi ci sarebbe la pallanuoto, dove sott’acqua per celarlo all’arbitro, i giocatori si danno colpi proibiti. Alla fine rimarrebbero solo gli sport in cui non c’è contrasto fisico.
Ma pure arrivando a questo assai improbabile limite, che ne sarebbe poi della esorcizzazione e sublimazione della violenza rappresentata da quegli sport, e sufficiente a placare gli spettatori non animati da spirito ‘teppistico’? Sotto a tutto, perché l’apparenza del mondo è cambiata ma la sua sostanza proprio no, vale ancora per la stabilità interna la vecchia regola di panem e circenses.

Nel 1729 l’irlandese Jonathan Swift, l’autore de I viaggi di Gulliver, caustico fustigatore della società del tempo considerato tra i maestri della prosa in lingua inglese, a fronte della cronica miseria dell’Irlanda scrisse il pamphlet “Una modesta proposta per impedire che i figli dei poveri diventino di peso ai genitori o al paese”. La ‘proposta’, corredata di adeguate e sofisticate ricette, era quella di usare i bambini poveri irlandesi come cibo per i ricchi.
Visto che, come allora per la miseria irlandese, ci si tappa gli occhi di fronte ai problemi di fondo, e ci si illude di poter giungere a una società del tutto governata dalla ragione e quindi immune dalla violenza, una ‘modesta proposta’ per dirimere la questione del teppismo da stadio potrebbe essere quella di riaprire le arene gladiatorie e farci combattere gli extracomunitari. Gli odierni ‘ultimi’ come allora gli irlandesi.


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