Trasferta
di emozioni
Trasumanazione. Di
questo si trattò. Come un evento paradisiaco, celestiale, divino,
supremo. Come un sogno denso, solido, concreto nella sua astrattezza. Come
la mia prima trasferta, Parma-Roma. Talmente intensa da non poter essere
descritta. Tanto spaziale e ultra-terrena da non poter trovare parole,
data la loro limitatezza umana, in grado di coprire tali fenomeni. Chiudendo
gli occhi mi sembra di tornare ad essere percossa da un’introspezione psicologica
efferatamente preziosa. Silenzio accecante, assordante buio. Il capo dolcemente
posato sul cuscino ed il mio corpo sotto le coperte erano i soggetti di
un moto vorticoso: ansia. Il sangue pulsante in trepidazione nelle vene
e sistole e diastole echeggiavano in un gioco folle nelle mie orecchie,
nel labirinto, nell’incudine, staffa, martello: ansia. Avrei dovuto riposare
ma all’improvviso le mie palpebre si schiudevano vivacemente. Tra qualche
ora sarei stata su un pullman. Tra qualche ora sarei stata al Tardini.
Come un islandese leopardiano appoggiato ad una collina, dialogai con la
natura, la passione, in una cascata di emozioni inesauribili. La sveglia
tuonò nell’atmosfera di assembramento sensoriale. Il film cominciava.
Il preludio era finito. Mi preparai di corsa. Era così espressa
la mia agitazione che, quasi volando, mi ritrovai pronta prima del previsto.
Dunque, la nuova attesa rendeva ancora più esagitata la mia condizione.
Nonostante il largo anticipo, finimmo per uscire di casa, io e mio padre,
in ritardo. E nuove scariche di adrenalina e noradrenalina impegnavano
spasmodicamente i miei sistemi simpatico e parasimpatico. In poco, eravamo
dal mio ragazzo. I nostri flussi di coscienza si incastonavano. I nostri
sguardi combaciavano. Ma quell’idiota alla guida sembrava voler rovinare
la nostra sete insaziabile di Roma. Temevamo di non fare in tempo. Avevamo
paura di non trovare il punto d’incontro. Forse giungemmo alla meta con
qualche minuto di ritardo. Forse no. L’agitazione aveva coinvolto anche
il tempo. Davanti a noi, lungo la strada, c’erano parecchi ragazzi. Tutti
tifosi, come noi. Era deliziosa e assolutamente invogliante l’idea che
la mia passione era la stessa che animava arzilla e inestimabile tante
persone, che condivisa intattamente svolgeva le sue battaglie psicosomatiche
nel profondo di gente…gente come noi, preda di amori unici e infrangibili.
E poi arrivarono i pullman. Saranno stati una ventina. E poi il cerchio
cominciò a restringersi. E poi la ricevuta veniva orgogliosamente
esibita alla nostra attenzione. E poi il numero della stessa veniva ricercato
per individuare il mezzo che, come una nave imponente, avrebbe solcato
le acque dell’A1 e avrebbe innescato la realizzazione del piacere. E poi
l’appello prima di salire quei tre splendidi scalini. E poi lo stretto
corridoio. E poi sediamoci qui. E poi tutti cominciano a chiacchierare.
E poi la forza emotiva riscalda l’aria. E poi i fumi trasudano. E poi la
chiave gira salda e vigorosa. E poi il motore sopraffino di un insostituibile
Terrenzio esplode nel suo incantevole concerto. E poi la scorta. E poi
il casello. E poi l’alba, il sole rosseggiante che apriva la scena al mattino.
E poi, o forse prima. I biglietti in mano all’autogrill. L’arrivo. La chiave
si rigira nel verso opposto. Il motore si concede una tregua meritata:
il viaggio verso il mio desiderio più profondo. Ecco lo stadio.
La calca. La folla in dolce attesa. Tocca a me. Lo strappo finalmente.
Finalmente amore. Finalmente passione. Finalmente tu, Roma. Sono arrivata
fin qui per te. Farò molto di più. Mi dedicherò a
te. Finalmente gol. Finalmente due. Addirittura tre. Hai vinto grandiosa
e imperiale. Hai sconvolto noi e specularmente il nemico, avidamente schiacciato.
Ancora cori, torce, fumogeni, stendardi e bandiere. Scuoti tutto. No, non
troverò mai le parole adatte. Ma il ricordo non svanirà.
Non ti dimenticherò. Mai. |