Successo
trionfale
Pennellate di frammenti
plumbei richiedevano ora solo un ultimo tocco di vitalità. E quella
domenica rappresentava l’apice della variopinta sfera emotiva che portava
in grembo i tifosi, a braccetto con i risultati. C’è sempre un momento
in cui si arriva. E l’arrivo era una spiaggia esotica. Granelli di sabbia
splendenti come scintille di torce. Limpida ed ineccepibile acqua come
impressioni di settembre. In un colore ci sono toni differenti. Uno è
quello preponderante. Molecole vibranti nell’aria, colorate come dai fumogeni,
come per gioco, come nell’immenso, erano assaporate in ogni istante. Gli
attimi trascorrevano lenti ma rapidi. Quella domenica rimane eterna. Tanto
desideri una cosa. Spremi te stesso fino al limite insopportabile. Sai
che soltanto lei può avverare la tua esistenza. Ti affezioni alla
speranza. E quando ce l’hai per le mani sembra viscida, sfuggente. Vuoi
solo coglierla. Vuoi solo coltivarne l’essenza nel cunicolo interiore.
Altalenanti sentimenti ossessionano amabilmente i confini della propria
realtà. Uscire di casa già era l’inizio del surreale futurismo
di quella domenica. Quando diventa un bisogno la realizzazione. E sbatti
la testa ovunque perché non ne puoi più. Non ne puoi fare
a meno. La paura nidifica perché la negazione segnerebbe un’infernale
non-vita. E se non fosse così. È tutto qui, vicino, a un
nonnulla da te. E se scappa poi cosa racconti. Procrastinare la vittoria
alimenterebbe un fuoco devastante. E le fiamme alte ustionerebbero violentemente
anni di lotta, di sofferenza passionale. Arrivi sotto casa del tuo ragazzo
e aspetti anche questo. Devi ancora attendere. E la stessa avventizia attesa
trasforma la persona. E la paura, immancabile, eversiva, rende inetti.
Come antropofagi. Come blesi. Le consonati accordano armonie di passi eterei
dopo la venuta. Siamo pronti. La scorta di sigarette non manca. Lo zaino
pesa. Il nostro tiepido ticchettio smembra i secondi perturbandone la velleità.
Ci si affianca una macchina. Lui ne fa parte: il medico della divina ci
concede riposo fisico apparente. Arriviamo allo stadio: “Scendete che se
Capello mi vede con la bandiera…”. Manca un’ultima discesa, una festa mesta.
Un primo controllo dei biglietti: il primo mio ostacolo è superato.
Ricomincia l’estenuante attesa, celata da cumuli di foschia razionale.
Intanto le lancette hanno cambiato posto. È ora di provare. Faticosamente
mi faccio coraggio. Non avrei potuto mai rinunciare. Mai abbattermi. Mai
gettare la spugna. Mai avrei avuto la forza di guardarmi allo specchio,
notando così solo una spada tratta. E un amico aprì le porte
del
mio cruccio cagionevole. Passai come la sua ragazza: “Lei sta con me…”.
Ancora attesa. Ancora aspetto. Ancora pinnacolo emozionale. Ancora più
bello. Ancora più inebriante. Ebbro. Il dolore passato è
ora un’inedia. Ora, ci sei solo tu. Ora, ci sono tre colori in più.
Ora, è una scoperta. Ora, le parole traballano fluttuanti. Cotanto
folgore. Lapilli. Sisma emotivo. Indescrivibile sensazione. Un nuovo paradiso.
Nessun’altro può intendere. Se non quelle 107 mila persone presenti.
Rettifico. Se non quelli che come me e senza dubbio più di me ci
vanno avanti in una quotidianità altrimenti sobria di vivacità
e vigore. Quella domenica resta indimenticabile. Come un vessillo sempre
eretto nell’interiore passione. E le pennellate adesso avrebbero richiesto
un’altra tela. |