di Alice
quarta puntata
Lotta estrema
Il tempo passava più velocemente degli scorsi anni. Il tifo colorava la mia vita in un’altalena di giochi orchestrali di chiaro-scuro, di soprani e contralti. La passione inghiottiva i giorni in una voragine di fuoco siderale. Come i fogli di un calendario, essi venivano strappati dal materialismo della comune eppur noiosa quotidianità del resto delle persone. Ero al centro di un turbine sentimentale che iperbolicamente cresceva, come fossi una curva asintotica. Era l’infinito la mia direzione. Feci altre due trasferte, Firenze e Bari. Tale era la mia convinzione, tanta la mia decisione, che pur di sostenere la mia Roma, divenuta un caposaldo, scappai di casa. Furono entrambe indimenticabili. Nonostante i viola ci sconfissero, ero sopraffatta da un entusiasmo incommensurabile: non conta il risultato di quegli undici giocatori, mi importa della prestazione di noi fedelissimi che diamo tutto, e dico proprio tutto. La soddisfazione della vittoria di un titolo, come lo scudetto, è il coronamento agli sforzi di ogni tifoso vero. Di fatto viene premiata la squadra, sono i calciatori ad essere emulati ed esaltati come idolatria di una superflua mentalità. Non mi interessano: il loro autografo vale meno di una gocciolina di sudore di un valoroso che lotta per novanta minuti, magari rivolto verso l’intero settore, seduto scomodamente su una vetrata, che sfrutta polmoni e corde vocali shakerandoli in un cocktail di cori esplosivi. Ebbene, il campionato si sarebbe concluso al meglio, ma non lo avrei mai saputo prima dell’ultima giornata. E anche se ne fossi venuta a conoscenza, per assurdo, sarei stata ugualmente al tuo fianco. E se all’opposto il sogno di trionfo si fosse rivelato contrario, avresti trovato sempre colmi i seggiolini, così come i sensi, perché sei un immenso microcosmo interiore, Roma. La sofferenza e la recidiva paranoia mi avrebbero ancora accompagnata nel mio viaggio verso la felicità. Il punto d’arrivo era celato da nuvole di mistero, da punti presi e persi. E non scorderò quando, per esempio, a Roma-Milan, dopo il gol di Coco, al mio ragazzo cedettero le gambe ed egli franò costernato sul cemento, anch’esso spumeggiante. Gli occhi si riempivano di lacrime, la testa perdeva le funzionalità di un’assurda razionalità. I secondi trascorrevano come granelli di sabbia in una clessidra. Fu un attimo di scompenso. Ma poi si alzò un grido, un’unica voce, le innumerevoli mani in uno stesso e contemporaneo battito, come la pulsazione cardiaca: “Combattete per noi”. 
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